Poesie (Fantoni)/Odi/Libro II/LIII. A Giuseppe Bertacchi
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LIII
A Giuseppe Bertacchi
(?)
Bertacchi, invan con torbido
ciglio mi guata il nudo arcier di Venere;
invan mi tende insidie
col riso e i sguardi di donzelle tenere.
5Non ardo alla protervia
grata di Nice dalle negre ciglia;
non al languor di doride,
che di Paro, in candor, marmo somiglia.
Né piú ludibrio e vittima
10d’adriaca Circe, a mille furie dedito,
piango i miei torti e credulo,
mentre chieggo pietá, vendetta io medito.
Conobbi omai del perfido
quanto è vitrea la fé, duro il servaggio,
15e troppo tardi, ahi misero!,
appresi, lacrimando, ad esser saggio.
Meco ne vieni ove ergesi
l’alto Appennin, che mai di nevi è povero,
t’offro sul fertil margine
20del Rosaro natio parco ricovero.
Di vergin lauro al placido
rezzo, godrai gli aurei precetti bevere,
che Flacco inimitabile
dettò presso Bandusia o in riva al Tevere.
Non teme un dio, che pascesi
d’ozio e languor fra le materne braccia,
chi corre della gloria
la faticosa via, del vero in traccia.
Alfin verrá la gelida
vecchiezza, e Amor, gettando l’arco inabile,
consegnerá noi vittime
allo stigio tiranno inesorabile.
Primo io cadrò; tu chiudimi
gli occhi ed intuona la canzon di doglia,
e di dovute lagrime
spargi pietoso la mia fredda spoglia.