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libro secondo | 175 |
LIII
A Giuseppe Bertacchi
(?)
Bertacchi, invan con torbido
ciglio mi guata il nudo arcier di Venere;
invan mi tende insidie
col riso e i sguardi di donzelle tenere.
5Non ardo alla protervia
grata di Nice dalle negre ciglia;
non al languor di doride,
che di Paro, in candor, marmo somiglia.
Né piú ludibrio e vittima
10d’adriaca Circe, a mille furie dedito,
piango i miei torti e credulo,
mentre chieggo pietá, vendetta io medito.
Conobbi omai del perfido
quanto è vitrea la fé, duro il servaggio,
15e troppo tardi, ahi misero!,
appresi, lacrimando, ad esser saggio.
Meco ne vieni ove ergesi
l’alto Appennin, che mai di nevi è povero,
t’offro sul fertil margine
20del Rosaro natio parco ricovero.
Di vergin lauro al placido
rezzo, godrai gli aurei precetti bevere,
che Flacco inimitabile
dettò presso Bandusia o in riva al Tevere.