Poesie (Fantoni)/Idilli/XVII. Delia

XVII. Delia

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Idilli - XVI. Il sacrificio Sciolti
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XVII

Delia

Formosum pastor Corydon ardebat Alexin.

Virg., Egloghe, ii

     Della figlia d’Alcon, Delia vezzosa,
Tirsi, pastor dell’Appennin lunense,
ardea senza mercede, e al fiume in riva
coi sordi boschi e le vicine rupi
5si lagnava romito, al suo dolore
dando inutile sfogo in questi accenti:
— Delia crudel, tu i versi miei non curi,
né ti muove a pietade il mio tormento?
Vuoi vedermi morir? Pastori e greggi
10ricercan l’ombra, e fin dentro la macchia
si occultan le lucertole: solo io,
mentre sugli arboscei stridono roche
le noiose cicale, e per la ghiaia,
avide del pantan, saltan le rane,
15gracidando, assetate al sol cocente,
erro inquieto del tuo piè su l’orme.
Ahi! non bastò ch’io tollerassi un lustro
i capricci di Nice e l’ire ingiuste;
di Nice, ingrata quanto bella, pure
20meno bella di te, meno tiranna.
Bionda donzella dai neri occhi, sparso
di minio il volto, nel candor del latte
di tua beltá, non gir superba: fugge
presto l’etá di giovinezza, langue
25su la siepe la rosa, e il bianco capo
chinan sul campo gli appassiti gigli.
Perché mi fuggi, né ai pastor tu cerchi
Tirsi qual sia, quanto di gregge ricco,
quanto di latte? Sui vicini monti

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     errano, e tutte mie, trecento agnelle,
e pei prati di Tèa mugghiano venti
vacche macchiate, cui saltellati dietro,
speranza della greggia, otto vitelli.
Né al freddo verno, né all’estate ardente
fresco latte mi manca. E i versi io canto
soavemente, che dettommi un giorno,
caro alle muse ed al Sebeto, il vecchio
di Cantalupo. Né cosí deforme
son da fuggirmi: mi specchiai nell’onda
ieri di un fonte, né di me piú bello,
benché amato da te, mi parve Aminta.
Deh! non fuggirmi e non sdegnar pietosa
meco abitare una capanna, i cervi
ferir con l’arco, circondar di reti
il comun gregge e, del tuo Tirsi al fianco,
Pane nei boschi oggi imitar cantando.
Pane fu il primo, che piú canne aggiunse
con molle cera e die’ lor fiato; Pane,
che, un dì deluso da Siringa, aborre
l’ingrate ninfe e la pietá protegge.
Né paventar che il labbro, sacro ai baci,
offenda il suon delle recise canne.
Ho una zampogna, che formò di sette
ineguali cicute il buon Cimante,
e a me la die’ quando in Arcadia ei vinse
dell’estinto Nivildo il flauto agreste
nella gara del canto: a me la chiese
Fille e l’ottenne, e per sei lune apprese
dei nostri nomi a risonar la selva.
Ti serbo inoltre due colombe, avvezze
su le spalle a volarmi, e fra le labbra
l’ésca a beccare impazienti; e un nido
di mal-piumate tortorelle: in cima
ieri d’un olmo le rapii; la madre
cercolle invano tutto il giorno ed èmpie
or de’ gemiti suoi la valle e il bosco.
Piú d’un panier ti preparai di fiori,
piú d’un di frutta. Pallide viole,
narcisi, aneti, vergini ligustri

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unii col timo e col mentastro, e a rosee
mele congiunsi ceree prugne e noci,
e grinzose castagne, e, onor di estate,
lanuginose pesche, e per i poggi
umil nascenti fragolette, e fichi
candidi e neri di sdrucita veste.
Ma tu non curi i doni miei, non curi
i miei lamenti; qual capretta il lupo,
Tirsi tu fuggi. Giá sospeso al giogo
recan l’aratro i bovi e il sol si asconde
dietro del monte, e al duplicar dell’ombre
riede la notte ed il riposo. Ahi lasso!
Per me non v’è riposo: ardo d’amore! —
     Ah Tirsi, Tirsi, qual follia ti guida
senza speranza! Non potata pende
da quell’oppio la vite, e i molli giunchi
inoperosi nella fonte stanno.
Scuotiti alfin dal tuo letargo: un’altra
piú docil ninfa rinverrai, se Delia
ti sprezza ingrata ed al tuo pianto è sorda.