Poesie (Antonio di Guido)/VII
Questo testo è completo. |
◄ | VI | VIII | ► |
Nel verde tempo della vita nostra,
nel mio dolce invischiossi un fèle amaro
dond’io per pruova imparo
quel ch’or si fa nell’amorose rete.
5Donne leggiadre, che provato avete
le fiaccole d’amore e le saette
crudeli e maladette,
di questo innanzi a me non parli alcuna,
ch’amor, fato o destin, cielo o fortuna
10m’oferse innanzi agli occhi un pulcro oggetto
d’uno spirto sì eletto,
che ’l bel Demitri non gli fora equale,
con un volto di perle oríentale
e ciascun occhio di Venere stella,
15e questa effige bella
d’or coronata un’amatista impera.
O biondo, o sacro Appollo, o quarta ispera,
e’ vi conviene asconder per costui,
el quale oscuri e bui
20fa i vostri raggi col suo sol novello.
Donne amorose, appieno i’ non favello
di sua biltà, perché non mi sia tolto
da voi quel chiaro volto,
ch’ebbe ed ha forza a tramutarmi in petra.
25E credo che Cupido la faretra
abbi perduta, l’arco e lo stral d’oro,
ché del suo santo coro
non gli aventa nel cuore una saetta.
Il chiamo, il priego, il seguo, ed e’ con fretta
30vola dinanzi alla mie vita lassa
e rompe e spezza e passa
un don de’ prencipal della natura.
Qual è notato in publica scrittura,
«Amor che a nullo amato amar perdona»,
35questo mi fugge e sprona,
e tal sentenzia in lui non truovo vera.
E perché l’alma mia altro non spera,
né cerca ch’aver lui, ed e’ mi fugge,
e per modo mi strugge
40che ’l fine esser dee il mio di Meleagro.
Questo parlar con voi donne è tropp’agro,
ma vo’ parlare un po’ col mio signore,
ché ragione e amore
forse el potrebbe far diventar pio.
45Vuo’ tu esser Gianson, dolce amor mio?
vuo’ tu ch’i’ sia Esifile o Medea?
vuo’ tu infamia sì rea?
vuo’ mi tu abbandonar, signor mie degno?
Vuo’ tu esser Teseo, ch’andò nel regno
50di Creti colle vele tutte nere
per la fede attenere
d’Egeo, e per morir nel Laberinto?
Adriana vezzosa, col cor tinto
d’amore, operò sì ch’e’ fu salvato.
55Non fu Teseo poi ingrato,
ch’abbandonò per Fedra essa Adrianna?
Ma pure alfine ingannato è ch’inganna,
e con centuplicato inganno e pena,
ch’ la luce serena
60di giustizia riguarda universale.
E per non giugner peggio al primo male,
non disputar con chi ha dominazione,
ch’ ’l punto di ragione
non arie loco: adoperiamo e prieghi.
65O Ipolito mio, deh, perché nieghi
venire a Fedra tua alcuna volta,
ch’a te si dona sciolta?
To’ mi qual pare a te che mi convegna.
Vuo’ tu ch’i’ sia da cotal grazia indegna,
70o Pirramo mio bel, vago e gentile,
che di Tisbe lo stile
emiterei per te, s’egli accadesse?
Né vorrei che ’l giudicio tuo tenesse
che passasse ’l mio amor l’amor di Dido,
75o di quella d’Abido,
o d’Ero, o d’Oenon, Canace o Fille,
o di Briseida el bel furto d’Achille,
o di Laudomia di Protessilao;
e quel ch’a Menelao
80Elena fece, quel farei per te.
Se non, giudicio tal sopra di me
venga, ch’i’ senta fra le scure selve,
fra le più crude belve,
in fame in freddo in caldo in sonno e ’n sete.
85Tenda Fortuna ogni suo laccio e rete
a legarmi a stracciarmi e a snervarmi,
col far poi ritornarmi
ogni dì mille volte a simil segno!
E poi, ultimamente, al tristo regno
90di Pluton passi l’alma, e a tutte quelle
più lese meschinelle
invidia singular porti in etterno.
Po’ ch’i’ tremo nel foco e ardo el verno
per te, alfin di me abbi merzede
95Chi nostre colpe vede
e che tutto conosce e poi intende!
Alcibiade mio, forse ti prende
un dubbio: mancheria, stando con lei?
O giusti, o sacri iddei,
100toglietel da siffatta fantasia
e fatel pronto a far la voglia mia!
Ché nuda mi vedrai qual ninfa in fonte,
e le preterite onte
saran converse in singular diletto,
105e, congiugnendo l’uno e l’altro petto,
fra le candide rense stando insieme
sotto dua diademe,
comincerei a mirar le sante stelle.
Po’ quelle chiome d’or, fulgide e belle,
110culte, comincerei a strigner con mano;
e poi soave e piano
liscerei in su la cristallina testa;
e, vista alquanto tua fronte modesta,
ti bacerei quelle gote pulite,
115di rubin colorite,
ch’eccedon di dolcezza ogni altro bene.
Po’ ’l bel bocchin colle perle serene
succerei, con que’ labbri d’un colore,
che gittano uno odore
120che spira e passa el soave oríente,
po’ quella bianca gola tuo lucente,
donde l’armonizzante boce corre.
Alfin cercherei porre
un giglio dove e’ suol me’ campeggiare.
125Or qui sare’ la festa singulare,
el tríonfo, la groria e l’allegrezza,
la soave dolcezza,
di che può mal parlar chi nolla prova.
Ma se sol di pensar tanto mi giova,
130che saria giunta all’opra, o spirto bello,
misera a me, che quello
ridir nol so come lo sente el core!
Né però tanta forza avria l’ardore
ch’i’ non guardassi a tua conservazione
135con gran discrezíone,
ch’ so che negli estremi giace el danno.
O spirto sceso dal soave iscanno,
formato per la man di quella iddea,
famosa Citarea,
140vogli osservar lo stil della piatate!
Tu hai a memoria assai cose passate,
tu ’ntendi nell’amar tutte le vie:
dolcezze e gelosie
ho già provato mille volte el giorno.
145Vieni, spirito bello, animo addorno,
qual píatosamente invoco e chiamo,
ch’altro non cerco o bramo,
né altri amerò mai in questa vita.
E, s’egli avvien che dopo alla partita
150di questa nostra fragil brevitate
di là sia libertate,
sempre ancor ti sarò fervida amante.
Però sia la tua speme di diamante
che non deggia in gran tempo venir meno,
155giovan di gloria pieno,
del cui amare i’ son legata e presa;
facciati il ciel filice d’ogni impresa,
se tu mi fai filice della mia;
s’i’ non son, tu non sia
160filice mai anzi per tal cagione.
Quello intervenga a te che a Sansone,
schernito e vinto da una femminella,
e prima ingrata e fella,
per purgagion de’ tua commessi errori;
165e s’tu contenti me, tra gigli e fiori,
e verdi frondi e rubini e zaffiri,
diamanti e perle miri,
con pace, amore e con vita quieta.
Or perché ’l lungo dir l’onestà el vieta,
170e poi per non tediar tua reverenza,
i’ darò la licenza
alla querela mia col velo agli occhi.
E tu piatosa fa’ che t’inginocchi
dinanzi a quello immenso, alto tesauro,
175coronata di lauro,
nel sacro e santo fonte di Giovanni,
a cui noto farai tutti e mie danni,
e di’ ch’i’ son condotta al punto istremo,
temo piango ardo e tremo,
180e ch’io non posso più se non m’aita,
e sento forte già fuggir la vita.