Poco spazio di terra (1834)

Fulvio Testi

XVII secolo Indice:Opere (Testi).djvu Canzoni Letteratura Poco spazio di terra Intestazione 2 aprile 2023 75% Da definire

Sovra porfidi eletti Gira all'Adria incostante, Ercole il ciglio
Questo testo fa parte della raccolta Poesie liriche di Fulvio Testi - Parte prima


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al signor cavaliere

GIUSEPPE FONTANELLI

Si detestano le soverchie delizie del secolo.


Poco spazio di terra
     Lascian omai l’ambizïose moli
     A le rustiche marre a i curvi aratri
     Quasi che mover guerra
     5Del ciel si voglia agli stellanti poli
     S’ergono mausolei s’alzan teatri,
     E si locan sotterra
     Fin su le soglie delle morte genti
     De le macchine eccelse i fondamenti.
10Per far di travi ignote
     Odorati sostegni a i tetti d’oro
     Si consuman d’Arabia i boschi intieri:
     Di marmi omai son vote
     Le Ligustiche vene, e i sassi loro
     15Men belli son perchè non son stranieri:
     Fama han le più rimote
     Rupi colà de l’Africa diserta,
     Perché lode maggior il prezzo merta.
Lucide sontuose
     20Splendon le mura sì che vergognarsi
     Fan di lor povertà l’opre vetuste:
     D’Agate prezïose,
     Di sardoniche pietre ora son sparsi
     I pavimenti de le logge auguste.
     25Tener le gemme ascose
     Son mendiche ricchezze e vili onori,
     Si calcano col piede ora i tesori.
Cedon gli olmi e le viti
     A l’edre a i lauri, e fan selvagge frondi
     30A le pallide ulive indegni oltraggi.
     Sol cari e sol graditi
     Son gli ombrosi cipressi e gl’infecondi
     Platani e i mai non maritati faggi.
     Dagli arenosi liti
     35Trapiantanti i ginepri ispidi il crine,
     Che le delizie ancor stan ne le spine.
Il campo ove matura
     Biondeggiava la messe or tutto è pieno
     Di rose e gigli e di viole e mirti.
     40La feconda pianura
     Si fa novo diserto, e’l prato ameno
     Boschi a forza produce orridi ed irti.
     Cangia il loco natura,
     E del moderno ciel tal’è l’influsso,
     45Che la sterilità diventa lusso.
Non son non son già queste
     Di Romolo le leggi, e non fur tali
     O de’Fabrizi, o de’ Caton gli esempli.
     Ben voi fregiati aveste,
     50O de l’alma città Numi immortali,
     Qual si dovea d’oro e di gemme i templi,
     Ma di vil canna intesto
     Le case furo, onde con chiome incolte
     I consoli di Roma uscir più volte.
55Oh! quanto più contento
     Vive lo Scita, a cui natio costume
     insegua d’abitar città vaganti.
     Van col fecondo armento
     Ove più fresca è l’erba e chiaro è ’l fiume
     60Di liete piagge i cittadini erranti,
     Dan cento tende a cento
     Popoli albergo, ed è delizia immensa
     Succhiar rustico latte a parca mensa.
Noi di barbara gente
     65Più barbari e più folli a giusto sdegno
     La natura moviamo il mondo e Dio;
     E ne l’ozio presente
     Istupidito è sì l’incauto ingegno,
     Che tutto ha l’avvenir posto in obblío,
     70Quasi che riverente
     Lunge da i tetti d’òr Morte passeggi,
     E ’l Ciel con noi d’eternità patteggi.
E pur, Giuseppe, è vero
     Che di fragile vetro è nostra vita,
     75Che più si spezza allor che più risplende.
     Tardo sì, ma severo
     Punisce il Ciel gli orgogli, e la ferita
     Che da lui viene inaspettata offende.
     Non con stil menzognero
     80Attiche fole ora mi sogno o fingo,
     Le giustizie di Dio qui ti dipingo.
In aureo trono assiso
     Coronate di gomme a mensa altera
     Slava de l’Asia il re superbo e folle;
     85Il crin d’odori intriso
     Piovea sul volto effeminato, ed era
     Pion di fasto e lascivia il vestir molle;
     Mille di vago viso
     Paggi vedeansi a un solo ufficio intenti
     90Ministrar lauti cibi in tersi argenti.
Tutto ciò che di raro
     in ciel vola, in mar guizza, in terra vive
     Del convito real si scelse agli usi.
     Vini che lagrimaro
     95Le viti già su le Cretensi rive
     Pur con prodiga man sparsi e diffusi;
     Nè soave nè caro
     Il frutto fu cui non giugnesse grido.
     O contraria stagione o stranio lido,
100Scaltro garzone intanto
     Per condire il piacer de la gran cena
     Temprò con saggia mano arpa dorata.

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     E sì soave il canto
     Indi spiegò, che in Elicona appena
     105Febo formar può melodia più grata.
     Ver lui sorrise alquanto
     L’orgoglioso tiranno, e mentre disse,
     Non fu chi battess’occhio o bocca aprisse.
O beata, o felice
     110La vita di colui che ’l Fato elesse
     A regger scettri, a sostener diademi:
     Vita posseditrice
     Di tutto il ben che nelle sfere istesse
     Godon lassù gli abitator supremi:
     115Ciò ch’a Giove in ciel lice
     Lice anco in terra al re; con egual sorte
     Ambo pon dar la vita, ambo la morte.
Se regolati move
     I suoi viaggi il sol; se l’ampio cielo
     120Con moto eterno ognor si volve e gira;
     Se rugiadoso piove,
     S’irato freme, o senza nube e velo
     Di lucido seren splender si mira,
     Opra sol’è di Giove;
     125Quell’è suo regno, e tributarie belle
     A lo sguardo divin corron le stelle.
Ma se di bionde vene
     Gravidi i monti sono, e se di gemme
     Ricchi ha l’India felice antri e spelonche;
     130Se da le salse arene
     Spuntan coralli, e ne l’Eoe maremme
     Partoriscono perle argentee conche,
     Son tue, Signor. Non tiene
     Giove imperio quaggiù: questa è la legge;
     135Il mondo è in tuo poter, il cielo ei regge.
Su dunque, o fortunati
     De l’Asia abitatori al nume vostro
     Vittime offrite e consacrate altari:
     Fumino d’odorati
     140Incensi i sacri templi, e ’l secol nostro
     Terreno Giove a riverire impari;
     E tu mentre prostrati
     Qui t’adoriam, Signor, de’ tuoi divoti
     Avvezzati a gradir le preci e i voti.’
145Lusingava in tal guisa
     Questi il tiranno, e festeggianti e liete
     D’ogn’intorno applaudean le turbe ignare;
     Quando mano improvvisa
     Apparve, io non so come, e la parete
     150Scritta lasciò di queste note amare:
     Tu che fra canti e risa,
     Fra lascivie e piaceri ora ti stai,
     Superbissimo re, diman morrai.
Tal fu ’l duro messaggio:
     155Nè guari andò che da l’ondoso vetro
     Uscì Febo a cacciar l’ombra notturna:
     Infelice passaggio
     Da real trono ire a mortal feretro,
     Dal pranzo al rogo, e da le tazze a l’urna
     160Così va chi mal saggio,
     Volgendo il tergo al ciel, sua speme fonda
     Ne’ beni di quaggiù lievi qual fronda.