Platone in Italia/VI. Discorso di Platone

VI. Discorso di Platone

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VI

Discorso di Platone

[L’amore — Mogli ed etère in Atene — Culto per le mogli in Isparta — La giustizia eterna vuol l’eguaglianza giuridica dei due sessi — Condizione fatta alla donna dal pitagorismo — Anche quando si ami, non bisogna dimenticar la filosofia.]

Ho narrate tutte queste mie agitazioni a Platone. Egli mi ha risposto:

— Tu incominci a credere alla virtú. La modestia è la prima sua figlia, e l’amore ne è il piú dotto maestro. Quando la virtú di una donna non le fosse utile per altro, l’è utilissima per avvezzar gli uomini a non desiderare, a non sperare, a non pretendere nulla da loro senza averlo prima meritato.

Tu finora non hai conosciuto l’amore. F.sso non è desiderio di cose mortale, ma bensí di un bello eterno, di cui le menti umane travedono appena un raggio ed a cui si avvicinano praticando la virtú e ricercando il vero. Tutte le nostre virtú tendono ad alimentare l’amore, e l’amore alimenta e rinforza a vicenda tutte le virtú.

Ma un tale amore non lo possiam conoscere noi greci. Le nostre leggi, che troppo male trattano le donne, non permettono che esse sviluppino né le facoltá, della mente né quelle del cuore. Educate da schiave, ne contraggono tutta la bassezza de’ sentimenti; né mai un nobile pensiero sorge nella mente loro, né mai un nobile affetto move il loro cuore. Quindi è che i nostri giovani le traggono dal gineceo paterno per rinchiuderle in un altro, ove le tengono sol come istrumenti [p. 24 modifica]necessari per dar alla patria de’figli che la legge riconosca: ed appena appare in Atene o Titnandria o Teodora o Lastenia o Laide o altra tale, tutti corrono dietro le medesime, e queste esercitano quell’impero, che la natura parea che avesse destinato alle mogli. E come potrebbe avvenire diversamente, se le etère1 hanno quelle virtú e quella intelligenza, che le mogli, per colpa di educazione trascurata, non hanno? L’impeto de’ sensi o cessa o cangia ben presto di oggetto: i soli desidèri della ragione sono eterni.

Quindi avvien ancora che presso di noi qualche savio ha detto che il vero amore trovar non si potea colle donne. Chiunque non trova nell’oggetto amato altro che la bellezza del corpo, ama le cose dell’amico e non l’amico istesso2.

Io non so qual sia stata la mente dei nostri legislatori nell’ordinar tali cose. È credibile che sieno avvenute senza che essi vi abbian pensato. Ma. se mai han creduto, con tali ordini, render gli animi de’ cittadini liberi dagli affetti domestici, e perciò piú coraggiosi e piti forti, hanno per certo errato: perché quell’impero, che presso di noi non hanno le mogli, ottengono le etère; e tu ben sai quante volte il capriccio di una di queste ha dettate le leggi in Atene. Si dice che in Corinto si educhino molte etère in memoria delle loro preghiere a Venere, colle quali una volta salvaron la patria. Altri dicono che ciò sia per fine di commercio. Io direi che ciò sia stato immaginato per dar le leggi alla Grecia3.

Se tu vai in Sparta, al contrario, trovi che ivi le mogli esercitano un potentissimo impero sui loro mariti. Uno spartano, dopo il suo brodo nero e dopo il suo giavellotto, non ha cosa al mondo piú cara della moglie; né perciò uno spartano è da [p. 25 modifica]meno di un ateniese. Io mi ricordo il tratto di una donna di Sparta. Una sua conoscente ateniese, quasi invidiandola, le domandava: — Perché i vostri mariti vi aman tanto? — Perché — essa rispose — le sole spartane sanno dare de’ cittadini alla patria. — Detto profondo e vero, perché non può dare al figlio l’educazione di un cittadino colei che ha la condizione e la mente di una serva.

Tu vedrai qui in Italia mille monumenti elevati all’amor filiale, alla pietá maritale, alla caritá patria delle donne; mille volte esse han salvata la patria col loro coraggio, coi loro doni, coi consigli loro. Oimè! la Grecia si è trovata mille volte in simili perigli, e le femmine nostre non han saputo far altro che riempierla maggiormente di lutto, di gemiti e di confusione4. Ed il piú illustre monumento, che noi abbiamo, è quello che il passaggiero incontra sul Ceramico: alle etère che pregavano Venere per la salute della patria. Vedrai mille monumenti elevati alla bellezza delle donne, nessuno alla loro virtú5.

Se mai io fossi fondator di cittá, prima di tutto vorrei eguagliare la condizione de’ due sessi. Taluni han riso di questo mio detto, ed han domandato se io credeva seriamente che una donna potesse brandir l’asta e correr tra le prime file in faccia all’inimico. Ma qual necessitá che vi corrano? Io parlava di giustizia eterna, ed essi parlavan di quella convenienza che cangia a seconda de" tempi e de’ luoghi6. È giusto che una metá del genere umano possa fare, al pari dell’altra, tutto ciò che vuole? Ebbene: ordinate le vostre leggi secondo la giustizia: gli uomini vedranno tra loro ciò che è utile. Ma senza il giusto l’utile non vi può esser mai, perdio, non essendovi l’eguaglianza, non vi può esser la scelta.

La scuola pitagorica è stata la sola che finora abbia compresa questa veritá, ed ha prodotto ne’costumi d’Italia quel-. [p. 26 modifica]l’utile cangiamento, che tanto oggi distingue le donne italiane da quelle che abitano di lá dal Ionio. Prima, in queste cittá si tenevan le donne come tra noi. Pittagora vide quanto importasse alla riforma del pubblico costume il nobilitar la condizione di moglie e di madre; quanto importasse allo stabilimento della sua setta il guadagnar le donno. Guadagnò queste, offrendo loro quella condizione civile che non aveano; e riformò i costumi, rendendole, con bene istituita educazione, degne del nuovo loro grado. Una di queste due cose, che Pittagora non avesse saputo fare, avrebbe prodotto piú male che bene. Né mai riformator di cittá e di religioni giunse al suo intento, se non seppe guadagnar gli animi delle donne, le quali, come dotate di spiriti piú mobili e piú pieghevoli e di piú calda fantasia, e risentono e comunicano piú facilmente l’entusiasmo necessario nelle grandi riforme. Né lei donne innalzate a nuova condizione, senza una conveniente educazione, avrebbero potuto usarne lungo tempo e con vantaggio della cittá. Nulla vi è di peggio di uno, cui la natura e l’educazione han dato un animo di schiavo, e la cieca fortuna spinge a comandare.

— E che m’importa — dirai tu — saper ciò che Pittagora fece, ciò che si fa in Sparta, ciò che tu vorresti, ciò che si dovrebbe fare? Parlami di Mnesilla. — Tu hai ragione: questo ragionamento, se non è troppo lungo per un filosofo, è lunghissimo per un innamorato. Ma, se ti ricordi ciò che Socrate diceva, cioè che la filosofia non ci deve abbandonare in nessuna delle piú leggiere occasioni della vita, perché nessuna ve ne è in cui non ci possa esser utile, tu trarrai da questo mio lungo discorso cagioni di divenir migliore e mezzi per guadagnare il cuore di Mnesilla.

Ricordati di non essere piú in Atene, ove un contratto tra tuo padre ed il padre di lei ti porterebbe in casa una giovane che tu non conosci e che non ti ama. Mnesilla, se la vuoi, devi conquistarla tu stesso, devi meritarla. Essa giudica per se stessa di chi è degno dell’amor suo. Riguardala come riguardaresti quell’Aspasia, innanzi a cui Socrate spesso taceva e [p. 27 modifica] da cui Pericle non isdegnava ricever consigli. Ma, a differenza di Aspasia, i suoi giudizi saranno piú liberali, piú costanti, perché non è costretta a fingerli onde ottener nella cittá, dal favore di un uomo, una condizione che non le accorderebbe la legge. Le etere nulla hanno e tutto debbono ottenere. Qualunque sia la loro condotta, qualunque sieno le arti onde rivestono i loro pensieri, esse sempre si vendono. Una giovane ingenua si dona. —

  1. ATENEO, XIII. Questo nome indicava nei primi tempi un’«amica»; poscia indicò una donna di cui Ninon nella storia moderna potrebbe esser in parte un’immagine. Le etère ornavano il loro spirito con tutte le belle cognizioni, e spesso aveano anche molta virtú; ma non avevan mai condizione civile.
  2. Queste parole si trovano in Platone.
  3. ATENEO, ibidem.
  4. ARISTOTELE dice questo delle stesse spartane (Politica, II).
  5. DICEARCO
  6. Si sa che i libri di PLATONE Sulla repubblica non sono che un trattato sulla natura della giustizia.