Pensieri e giudizi/III/III

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III.


La Grecia è stata sempre in cima dei miei pensieri; ad essa devo quel po’ che ho fatto nell’arte, ad essa gli affetti più nobili e i più santi entusiasmi della mia vita. Nessuna storia mi ha fatto piangere e fremere quanto quella della gloriosa insurrezione greca del ’21, e da essa scaturirono le prime scintille politiche del mio ingegno. A 16 anni scrissi un poemetto intitolato «L’Oreade di Scio» e un altro sul «Sacrifizio di Samuele»1; e poco dopo cantai la cacciata di Ottone, in un’ode saffica, di cui rammento ancora alcune strofe:


Or sorgi: e tu che al barbaro Ottomano
Pieghi ancora la fronte, e tu che gemi
Sotto la verga del corsal britanno,
                            Lévati e fremi.

Pe’ visceri d’Europa indomito erra
Foco che a troni e a re schiude gli avelli:
Tu non cadrai, s’è Dio nel ciel, se in terra
                            Son pur fratelli.

Tu non cadrai, nè fia quel sangue vano
Che di tua libertà l’are fe’ molli,
Onde vermiglio è di Cidonia il piano,
                            Di Suli i colli.

Su, leva il guardo al Pindo ed all’Oeta,
Aquila de l’Olimpo, e a’ quattro mari:
Ecco l’ombre di Marco e di Niceta,
                            Ecco Canari.

[p. 66 modifica]Nè tacqui il giorno che l’insurrezione di Candia fece sperare un mutamento nei destini della Grecia. Scrivevo allora la «Palingenesi» e chiusi il canto delle Rivoluzioni con un inno ai ribelli e con questo voto:


E quando fia che intera
Dal freddo Ponto ad Elide
Al sol si svolga l’Itala bandiera,
Allor su la mia lingua
L’inno s’agghiacci e l’estro mio s’estingua.

Oh, se io potessi prima di morire veder la Grecia libera!

Se io potessi inneggiare alla libertà divina che, radiosa di nuova luce, apre le braccia ai nipoti di Botzari e di Zanella!

N’esulterei come il dì che vidi la patria libera dallo straniero. Chè patria di ogni anima gentile è la Grecia, e da me doppiamente amata perchè i Siciliani han sangue greco nelle vene, e comuni coi Greci le tradizioni e le glorie.

Forse non legiferò qui Caronda, non ispeculò Archimede, non cantò Stesicoro, non pensò Empedocle? Epicarmo non inventò qui la commedia? Sofrone i mimi? Non presentì Petrone la pluralità dei mondi? Non combattè Dicearco le fantasie filosofiche di Platone? E Teocrito e Mosco e i due Filemoni e Apollodoro ed Eudosso non sono nostri? E qui venne Pindaro e Simonide e Bacchilide ed Eschilo a crescere splendore alla corte di Gerone e ad onorare la Sicilia.

Tali uomini avemmo e tali glorie noi siciliani, [p. 67 modifica]noi greci. E pure non manca ora chi c’insulta come popoli senza storia, immersi eternamente nella barbarie! E gl’insultatori son nostri fratelli!

Oh, sorga, sorga a nuova vita la Grecia! Le sue vittorie saranno nostre; la luce delle sue nuove glorie accenderà i nostri cuori. Finchè il giogo ottomano peserà sul collo di un sol Greco, nè l’Italia, nè le altre nazioni civili saranno pienamente degne della libertà.

Note

  1. Vedi il volumetto: Canti — Catania, 1863.