Pensieri e discorsi/Un poeta di lingua morta/Introduzione
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Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare, e in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte.
Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine; e qui si fondono formando nella serenità del mattino un immenso bagno di purissimi metalli scintillanti nel liquefarsi, e qui si adagiano rendendo, tra i vapori della sera, imagine di grandi porpore cangianti di tutte le sfumature delle conchiglie. È un luogo sacro questo. Tra Scilla e Messina, in fondo al mare, sotto il cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell’aurora, sotto le porpore iridescenti dell’occaso, è appiattata, dicono, la morte; non quella, per dir così, che coglie dalle piante umane ora il fiore ora il frutto, lasciando i rami liberi di fiorire ancora e di fruttare; ma quella che secca le piante stesse; non quella che pota, ma quella che sradica; non quella che lascia dietro sè lacrime, ma quella cui segue l’oblio. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.
E in questo paese, sino a pochi giorni sono, era il poeta. Chi me ne parlò quando io era ancora giovinetto — ahimè! più di trenta anni fa — in collegio, a Urbino? Un vecchio frate che conosceva anch’esso i doni delle Muse, il padre Giacoletti, il cui nome non s’aggira più, che io sappia, che in qualche melanconico chiostro di seminario. Quel nome era allora illustre per poemi latini sull’ottica, niente meno, e sul vapore.
Il vecchio frate per il quale noi avevamo una ammirazione quasi paurosa, parlava spesso di un poeta, d’un latinista, appetto al quale egli era un nulla; che abitava lontano lontano nell’estremo lembo d’Italia.
Io non dimenticai più quelle parole di lode suprema e qual cenno (il buon frate trinciava l’aria come il Galdino Manzoniano), quel cenno di distanza infinita.
Sì che quando, or sono pochi mesi, mi trovai in quel lembo d’Italia, io ripensai subito al poeta, al Genio del luogo. Egli era bene un poeta, e il poeta, sapete, è quasi un creatore, poichè è colui che con le parole — fiat lux — illumina d’un tratto l’oscurità che ne circonda. Certo la stella e il fiore, la serenità e la tempesta erano anche prima che il poeta ne parlasse, e voi avevate gli occhi per vederle; ma voi non guardavate, e le cose belle erano come se non esistessero: la sua parola fu che per voi le creò. E così io pensava a questo poeta dell’estrema Italia, dove le onde greche si fondono con le latine, come a uno spirito misteriosamente remoto che da un suo speco vegliasse a creare questo mondo fantastico con le Nereidi ululanti dal mare e con le città morte pendenti nel cielo. Mi aveva l’aria, questo poeta segregato dal mondo, se m’è lecito dirlo, d’un Proteo vecchio marino verace, che sapesse i gorghi di tutto il mare.