Pensieri e discorsi/Un poeta di lingua morta/III

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III.


Egli mi avrebbe risposto: — Ospite, io ti parlerò con antica vecchia semplicità. Tu non mostri dubbiezza sull’arte mia, perchè il linguaggio, che ne è lo strumento, non sia inteso dall’universale degli uomini. Tu sai bene che non potrei usare un linguaggio che fosse inteso da tutti; perchè non esiste... ancora. E non dico solo che non c’è linguaggio comune a tutti i popoli, ma nemmeno ce n’è che sia intelligibile a tutti, anzi alla maggior parte degli uomini, di un singolo popolo. Nè c’è speranza che si formi da sè, questo linguaggio o universale o nazionale, nè c’è timore che si fabbrichi dai meccanici nostri: la natura va dal semplice al composto, dall’omogeneo all’eterogeneo, e non viceversa; e le lingue e i dialetti moltiplicheranno sempre d’anno in anno e di secolo in secolo. Per questa parte, ospite, tant’è che io usi il latino e il greco, quanto qualunque lingua parlata; anzi, se si computa bene, devo credere di esser per avere più intenditori, in tutto il mondo, del mio latino, che nella sola Italia, del mio italiano. Non è qui il tuo dubbio. In fin dei conti, tu non parli della lingua, cioè della veste sensibile, ma dell’idea, cioè dell’anima intelligibile. Tu osservi che anche nella tua lingua io preferisco la parola antiquata e la costruzione fuori d’uso. Tu metti in relazione il gusto cinquecentistico delle mie Veglie Pompeiane e d’ogni mia cosa volgare col mio culto per le lingue latina e greca nello Xiphia, nelle elegie, negli epigrammi, nelle iscrizioni, nelle epistole, nelle orazioni: la parte massima dell’opera mia. E [p. 166 modifica]dici che io rinnego il presente per il passato e che non voglio essere dei miei tempi. Oh! bada. La mia idea è questa. L’uomo combatte continuamente contro la morte. Esso alla morte deve disputare, contrastare, ritogliere quanto può. La nostra vita è gelida e noi abbiamo bisogno di calore; la nostra vita è oscura e noi abbiamo bisogno di luce: non si lasci spegner nulla di ciò che può dar luce e calore: una favilla può ridestare la fiamma e la gioia! Non si lasci morir nulla di ciò che fu bello e giocondo. E consoliamo i banchettanti i quali dopo aver profuso sulla mensa il vino che pareva soverchio da prima, si attristano all’ultimo per la sete insoddisfatta: consoliamoli con l’anfora spregiata che già riponemmo tra le loro risa. E se per ciò la nostra fama non va tanto in alto e tanto per largo, e se la nostra voce non esce dall’ombra delle scuole, pazienza! Io sento che poesia e religione sono una cosa, e che come la religione ha bisogno del raccoglimento e del mistero e del silenzio e delle parole che velano e perciò incupiscono il loro significato, delle parole, intendo, estranee all’uso presente, così ne ha bisogno la poesia: la quale, del resto, anche in volgare, non usò mai e non usa ancora nè la lingua nè i modi nè il ritmo abituali.

Nè credo io che la poesia debba o possa essere l’agitatrice delle turbe, ma la beatrice dei cuori. Ella non gonfia le gote per dar fiato alla tromba; ma attinge brevemente con le dita le corde dell’arpa. Ella non respinge da sè, riempiendo di fracasso e di mania orecchie e cervelli, ma attira a sè con un lontano e fievole tintinno. Ci sono certe musiche che bisogna allontanarsene per gustarle senza esserne [p. 167 modifica]intronati: alla poesia bisogna avvicinarsi, per sentirla. Ed ella parla ora a questo ora a quello, qua asciuga una lagrima, là aggiunge un sorriso, con delicata modestia, come una silenziosa benefattrice. Ora gli uomini che attrae la mia lira antica col suo giocondo strepito, e consola e conforta, vengono da tutte le parti del mondo, e verranno finchè si studi la lingua dei Quiriti. Oh! il grande avvenire di quest’arte universale! —