[p. 378 modifica] ἐκεῖνος, o di τοῦτο ποιείσθω (hoc fiat) o di τοῦτο ποιητέον o di τοῦτο ποιεῖν δεῖ, la quale ultima parola si sottintende in questa formola ellittica di τοῦτο ποιεῖν. Simile a quest’uso è quello degl’italiani di usare l’infinito in vece della seconda persona singolare dell’imperativo, quando precede una particella negativa, ossia vietativa. Non fare, non dire per non fa, non di’. Il qual uso viene dal comune rustico romano, ossia da quella lingua in cui degenerò il latino d’Europa ne’ bassi tempi, che si parlò in tutta l’Europa latina, e da cui nacquero le lingue italiana, francese, spagnuola, portoghese, e i loro dialetti. Vedi il Perticari, Apologia di Dante, p. 170. Ma quest’uso figurato è rimasto ai soli italiani, benché già fosse proprio anche dei provenzali, come dimostra il Perticari, loc. cit. I greci dicevano ancora μὴ τοῦτο ποιεῖν per μὴ τοῦτο ποίει. Cosí ancora invece delle seconde e terze persone imperative plurali, cioè invece di μὴ τοῦτο ποιεῖτε o ποιείτωσαν. Vedi Senofonte Πόροι, cap. IV, num.40; Platon., Sophist., t. II, Astii, p. 346, v.11, E (12 maggio 1823).