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264 | pensieri | (3236-3237) |
quidem ullus dividere; quocirca etiam nomina non satis nobis possunt in promptu esse? Astius. Vuol dir Platone e si lagna che gli antichi greci (e cosí tutti gli antichi d’ogni nazione) ebbero poche idee elementari, onde la loro lingua (e cosí tutte le lingue fino a una perfetta maturità e coltura, e fino che la nazione non filosofa) mancava di termini esatti e sufficienti ai bisogni del dialettico, massimamente, e del metafisico. Ond’é che Platone il quale volle sottilmente filosofare ed esercitare l’esatto raziocinio, e considerare profondamente la natura delle cose, fu arditissimo nel formare de’ termini di questa fatta, ed abbonda sommamente di voci nuove e sue proprie, esatte e logiche ovvero ontologiche,1 che da niuno altro si trovano adoperate o che da’ suoi scritti furono tolte. E notisi che Platone faceva questa lagnanza della sua (3237) lingua, la piú ricca, la piú feconda, la piú facile a produrre, la piú libera, la piú avvezza e meno intollerante di novità, ed oltre a questo, nel piú florido, perfetto ed aureo secolo d’essa lingua, e quasi ancora nel piú libero e creatore. Nondimeno a Platone parve scarsa a’ bisogni dell’esatto filosofare la stessa lingua greca nel suo miglior tempo, e trattando materie sottili egli ebbe bisogno di parere ardito agli stessi greci in quel secolo, e di fare scusa e addur la ragione del suo coniar nuove voci. Né certo si dirà che Platone le coniasse o per trascuratezza e poco amore della purità ed eleganza della lingua, di ch’egli è fra gli attici il precipuo modello, né per ignoranza d’essa lingua e povertà di voci derivante da questa ignoranza (22 agosto 1823).
* Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz’aiutarsi dell’immaginazione né del sentimento, né dar loro alcun luogo, ch’è il procedere