la felicità propria dell’uomo nell’altra vita, facendola indipendente da quella di questo mondo, considerando le sventure temporali come vantaggi e reali fortune, insegnando massimamente esser felicissimo chi soffre per la giustizia e per la fede e per Dio, e piú chi muore per loro amore e cagione, davano luogo al Tasso di rappresentare come felice e come giunto al suo desiderio e scopo un personaggio, il quale, facendolo temporalmente sventurato e nelle sventure magnanimo ec., poteva pur fare sommamente compassionevole e tenero. Né altrimenti egli si governò circa il Danese, il quale ei non diede già per infelice, ma per felicissimo veramente, essendo morto, e generosamente morto per Dio, e nel tempo stesso il volle fare e il fece oggetto di compassione e di tenerezza per la temporale sventura e per questa morte fortemente incontrata e sostenuta. Ma ei non si volle prevalere di tal facoltà né di tali opinioni e disposizioni del suo tempo, se non quanto a personaggi secondarii (come questo e Dudone (3150)) e in episodii; e l’eroe principale volle farlo felice, non solo eternamente ma temporalmente altresí, e la principale impresa volle che bene uscisse non pure secondo il cielo, ma eziandio secondo la terra. Nel che non m’ardisco però di riprendere il suo giudizio, né so biasimarlo s’ei credette che i dogmi metafisici (e poco conformi, anzi contrarii alla natura e che troppa forza le fanno) non dovessero gran fatto influire sulla poesia, né potessero molto giovare a produr con essa un buono, bello e splendido effetto. Siccome essi poco veramente influivano, anche al suo tempo, sopra le azioni e le quasi secondarie opinioni degli uomini; né valsero in alcun tempo a cangiare la natura umana, alla quale dee mirare in ogni tempo il poeta. In verità due sorti di opinioni e di dogmi, l’una dall’altra distinta, e che quasi nulla comunicavano insieme, tenevano all’età del Tasso e ne’ secoli a lei precedenti gl’intelletti degli uomini.