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(2551-2552-2553) | pensieri | 303 |
sono gl’istanti della nostra vita, in ciascuno de’ quali noi preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo col fatto non meno che coll’intenzione, col desiderio, e col discorso piú o meno espresso, piú o meno tacito ed implicato della nostra mente. Effetto dell’amor proprio ingannato, come in tante altre cattive elezioni ch’egli fa considerandole sotto l’aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga in quelle tali circostanze. (2552)
Che poi l’uomo debba esser certo di non passar giorno senza patimento, il che potrebbe parere una parte non abbastanza provata in questo mio ragionamento, lasciando stare i mali e dolori accidentali che intervengono inevitabilmente a tutti gli uomini, si dimostra anche dalla medesima proposizione, la quale afferma che l’uomo dev’esser certo di non provar piacere alcuno in sua vita. Perocché l’assenza, la mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende come a suo sommo ed unico fine, perpetuamente e in ciascuno istante, per natura, per essenza, per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del piacere il quale è la perfezione della vita, non è un semplice non godere, ma è un patire (come ho dimostrato nella teoria del piacere): perocché l’uomo e (2553) il vivente non può esser privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua felicità, senza patire e senza infelicità. E tra la felicità e l’infelicità non v’é condizione di mezzo. Quella è il fine necessario, continuo e perpetuo di tutti gli atti esterni ed interni e di tutta la vita dell’animale. Non ottenendolo, l’animale è infelice; e questo in ciascuno di quei momenti nei quali desiderando il detto fine, ossia la felicità, infinitamente, come fa sempre, non l’ottiene e n’è privo, come lo è sempre. E però l’uomo dev’esser fisicamente certo di non passar, non dico giorno, ma istante, senza patire. E tutta la vita è veramente, per propria natura immutabile, un tessuto