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44 | pensieri | (528-529) |
velint, praestant) πεζογράφοι δὲ ἐπιτιθέμενοι ποιητικῇ, πταίουσι (si poeticae sibi partes vindicare velint, non assequuntur). Δῆλον τὸ μὲν φύσεως εἶναι (scil. τὸ τῆς ποιητικῆς) τὸ δὲ τέχνης ἔργον. Laerzio, in Xenocrate, l. IV, segm. (528) 15. E vedi se ha nulla in questo proposito il Menagio (19 gennaio 1821).
* Come i piaceri, cosí anche i dolori sono molto piú grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza che nella nostra età e condizione. E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto. Primieramente (massime ne’ fanciulli) manca l’assuefazione al bene e al male. Il bene dunque e il male dev’esser molto piú sensibile ed energico relativamente all’animo loro che al nostro. Poi (e questo è il punto principale e comune a tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec., nel fanciullo e nel primitivo sopravviene all’opinione della felicità possibile o anche presente; contrasta vivissimamente coll’aspetto del bene creduto e reale e grande, del bene o già provato o sperato con ferma speranza o veduto attualmente negli altri; è l’opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata all’uomo, posseduta dagli altri (529) e che sarebbe posseduta da noi, se quell’ostacolo non ce l’impedisse o per ora o per sempre. Ed anche l’idea del male assoluto, cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura che nello stato di civiltà e di sapere.
* Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec. Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere all’aspettativa, al giubilo precedente: e che il dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza, non dico alla misura del piacere provato