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pensieri |
(503-504-505) |
vita, quanto la considerazione della necessità e irreparabilità de’ suoi mali, infelicità, disgrazie (504) ec. Soltanto l’uomo vile o debole, o non costante o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l’abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma gli antichi sempre piú grandi, magnanimi e forti di noi, nell’eccesso delle sventure e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensí e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, né ammansati, né meno, anzi tanto piú desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura, (505) si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei e si professava vinta, ma non cedente. Noi che non riconosciamo né fortuna né destino né forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l’odio e il furore (se siamo magnanimi e costanti e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del piú feroce e capitale nemico e ci compiaciamo nell’idea della morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell’idea della vendetta contro un oggetto di odio e di rabbia somma. Io, ogni volta che mi persuadeva della necessità e per-