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(680-681-682) | pensieri | 129 |
cristiani cade appunto in quell’epoca, dove la vita, l’energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di reggimento e di stato pubblico, e insomma di società, erano svanite o sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo. Cosí dunque torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti quello ch’era proprio dell’uomo primitivo, dico la tendenza dell’uomo alla solitudine, tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perché oggidí è cosí la cosa. La presenza e l’atto della società spegne le illusioni, (681) laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva. Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione o soggetto all’altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e questo, ancorché egli sia d’ingegno penetrante e istruito, ed anche, quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L’uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desiderii, nella solitudine a poco a poco si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e piú o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorché penetrantissimo d’ingegno, e sventuratissimo. Come questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel diverso e piú vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora, essendo lontane dai sensi e dall’intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare (682) e desiderare e vivere, per poi tutto riperdere e morire di nuovo, ma piú presto assai di prima, se rientra nel mondo.
Dalle dette considerazioni segue che oggi l’uomo, quanto è piú savio e sapiente, cioè quanto piú conosce, e sente l’infelicità del vero, tanto piú ama la so-