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94 pensieri (616-617)

si rivolgono alla felicità altrui; e ciò spontaneamente, e senz’ombra di eroismo. E l’animo dell’uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in altrui, cioè nello scopo dell’altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici spogliavano (o proponevano di spogliare) del sangue proprio e restituivano ad una certa salute colla introduzione del sangue altrui o di qualche animale, quasi cangiando la persona, e trasformando quella che non poteva piú vivere, in un’altra capace di vita, e cosí conservando la vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.

Ed è anche una cagione del detto effetto quella ch’io son per dire. L’uomo che sebbene disperato, non perciò si odia (cosa che avviene per  (617) lo piú, non mica, come parrebbe, prima che l’uomo cominci ad odiarsi, ma dopo che si è sommamente ed inutilmente odiato, e cosí l’amor proprio, tentato ogni mezzo di soddisfarsi, resta del tutto mortificato e l’animo esaurito d’ogni forza, si riduce alla calma e alla quiete dello spossamento e perde affatto la capacità di ogni sentimento vivo) l’uomo, dico, il quale senza odiarsi, solamente considera se stesso e la vita sua come inutile, prova una compiacenza e soddisfazione, una (ma leggerissima) consolazione, nel trovar dove adoprare se stesso e la vita, che altrimenti non servirebbe piú a nulla; e l’uso qualunque di se stesso e della vita, gittata già come cosa inutilissima, sebbene a lui non giovi nulla, sebbene egli non sia piú capace d’illusioni né di credersi buono a gran cose, tuttavia lo conforta, rappresentandolo a se stesso, come alquanto meno inutile; o se non altro, e piuttosto, col pensiero di avere almeno adoprato e non gittato affatto, quell’avanzo di esistenza e di forza viva e materiale (5 febbraio 1821).