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xii | introduzione dell'editore |
rico. Questi pregi e deficienze, indice evidentissimo d’uno spirito mancante d’agilità, si ripercuotono, naturalmente, nel Vico scrittore. A lui era dato di raggiungere, anche nella forma, la grandezza, la robustezza e sopra tutto l’originalità; e di scrittori così maestosi, così robusti e specialmente di così spiccata fìsonomia personale (fatto tanto più mirabile in quanto egli scriveva nell’arcadeggiante prima metà del secolo decimottavo), la letteratura italiana ha da vantare ben pochi. Si potrà, per uno dei tanti scherzi che fa la memoria, attribuire al Petrarca una strofa del Bembo, all’Ariosto un’ottava del Berni e, andando giù giù, a Paolo Sarpi un periodo di Pietro Giannone; ma come non è possibile assegnare a nessun altro poeta una terzina di Dante, così anche l’uomo più smemorato di questo mondo non farà mai Giordano Bruno (cito a bella posta lo scrittore che col Vico ha meno dissimiglianze) autore d’una «Degnità» vichiana. Pare quasi che in ogni pagina, in ogni periodo, in ogni frase, e perfino in talune parole e forme grafiche, il Vico abbia voluto imprimere la sua firma con un marchio rovente. Provatevi infatti a esporre un suo concetto con parole diverse da quelle da lui adoperate. Già, prima d’ogni altro, non vi riuscirete; e anche se, a mo’ d’esempio, vorrete dire che ogni favola ha un fondamento di vero, la penna non vi obbedirà e, senza che ve ne accorgiate, alla parola «fondamento» sostituirà l’altra, ch’è tutta vichiana, di «motivo». Ma anche se a furia di cattivo gusto raggiungerete l’intento, il profano, sì, potrà essere contento della vostra esposizione; ma chi conosca un po’ da vicino il Vico, vi dirà (e avrà mille ragioni) che glielo avete rovinato.
Senonchè, dopo di aver assegnato al Vico questo posto altissimo che gli compete anche come scrittore, conviene pur confessare che a lui mancavano, totalmente o quasi, certe doti di molto minor valore, che ogni uomo d’inge-