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ultime lettere d’jacopo ortis. 117

l’aria aperta, sollevò gli occhi, e li tenne fissi al cielo per due o tre minuti, e parea che pregasse mentalmente con tutto il fervore dell’anima sua; e che quell’atto le avesse ridato la prima rassegnazione. E senza versare più lagrima, benedisse di nuovo con voce sicura il figliuolo; ed ei le ribaciò la mano, e la baciò in volto.

Io stava piangente: dopo avermi abbracciato, mi promise di scrivermi, e mosse il passo, dicendomi: Presso alla madre mia ti sovverrai sempre della nostra amicizia. Poi rivoltosi alla madre, la guardò un pezzo senza far motto, e partì. Giunto in fondo alla strada si rivolse, e ci salutò con la mano, e ci mirò mestamente, come se volesse dirci che quello era l’ultimo sguardo.

La povera madre ristette sulla porta quasi sperando ch’ei tornasse a risalutarla. Ma togliendo gli occhi lagrimosi dal luogo dond’ei se l’era dileguato, s’appoggiò al mio braccio, e risaliva dicendomi: Caro Lorenzo, mi dice il cuore che non lo rivedremo mai più.

Un vecchio sacerdote di assidua famigliarità nella casa dell’Ortis, e che gli era stato maestro di greco, venne quella sera e ci narrò come Jacopo era andato alla chiesa dove Lauretta fu sotterrata. Trovatola chiusa, voleva farsi aprire a ogni patto dal campanaro; e regalò un fanciullo del vicinato perchè andasse a cercare del sagrestano che aveva le chiavi. S’assise, aspettando, sopra un sasso nel cortile. Poi si levò, e s’appoggiò con la testa su la porta della chiesa. Era quasi sera; quando accorgendosi di gente nel cortile, senza più aspettare, si dileguò. Il vecchio sacerdote aveva risaputo queste cose dal campanaro. Seppi alcuni giorni dopo, che Jacopo sul far della notte era andato a visitare la madre di Lauretta. Era, mi diss’ella, assai tristo; non mi parlò mai della mia povera figliuola, nè io l’ho nominata mai per non accorarlo di più. Scendendo le scale, mi disse: Andate, quando potrete, a consolare mia madre.

E intanto la madre di lui fu in quella sera atterrita di più fiero presentimento. Io nell’autunno scorso trovandomi a’ colli Euganei aveva letto in casa del signore T*** parte d’una lettera1 nella quale Jacopo tornava con tutti i pensieri alla sua solitudine paterna. E allora Teresa rappresentò a chiaroscuro la prospettiva del laghetto de’ cinque fonti, e accennò sul pendio d’un poggetto l’amico suo che sdrajato su l’erba contempla il tramontare del sole. Richiese d’alcun verso per iscrizione il padre suo, e le fu da lui suggerito questo di Dante:

Mandò poscia in dono il quadretto alla madre di Jacopo, raccomandandosi che non gli dicesse mai donde veniva; infatti egli non l’avea mai risaputo: ma quel giorno ch’ei fu in Venezia s’accorse del quadretto appeso, e di chi lo aveva fatto: non ne fe’ motto: bensì rimastosi nella camera tutto solo, smosse il cristallo, e sotto al verso:

Libertà va cercando, ch’è sì cara.


scrisse l’altro che gli vien dietro.

Come sa chi per lei vita rifiuta.


E fra il cristallo e la scannellatura di dentro della cornice trovò una lunga treccia di capelli, che Teresa, alcuni giorni prima delle sue nozze, s’era tagliati senza che veruno il sapesse, e ripostili nella cornice in guisa che non traspirassero ad occhio vivente. L’Ortis a que’ capelli congiunse, quando li vide, una

  1. La lettera di Firenze, 7 settembre, pag. 81-82.