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ultime lettere d’jacopo ortis. 105

dalle sue carte, pajono gli ultimi pensieri che lo raffermarono nel suo proponimento; e però li andrò frammentendo secondo le loro date.

«Veggo la meta: ho già tutto fermo da gran tempo nel cuore — il modo, il luogo — nè il giorno è lontano.

Cos’è la vita per me? il tempo mi divorò i momenti felici: io non la conosco se non nel sentimento del dolore: ed or anche l’illusione mi abbandona: — medito sul passato; m’affiso su i dì che verranno; e non veggo che nulla. Questi anni che appena giungono a segnare la mia giovinezza, come passarono lenti fra i timori, le speranze, i desideri, gl’inganni, la noja! e s’io cerco la eredità che mi hanno lasciato, non mi trovo che la rimembranza di pochi piaceri che non sono più, e un mare di sciagure che atterrano il mio coraggio, perchè me ne fanno paventar di peggiori. Che se nella vita è il dolore, in che più sperare? nel nulla o in un’altra vita diversa sempre da questa. — Ho dunque deliberato: non odio disperatamente me stesso; non odio i viventi. Cerco da molto tempo la pace; e la ragione mi addita sempre la tomba. Quante volte sommerso nella meditazione delle mie sventure io cominciava a disperare di me! L’idea della morte dileguava la mia tristezza, ed io sorrideva per la speranza di non vivere più.

Sono tranquillo, tranquillo imperturbabilmente. Le illusioni sono svanite; i desiderj son morti; le speranze e i timori mi hanno lasciato libero l’intelletto. Non più mille fantasmi ora giocondi ora tristi confondono e traviano la mia immaginazione: non più vani argomenti adulano la mia ragione; tutto è calma. — Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita. La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace.»


Da Ravenna non mi scrisse; ma da quest’altro squarcio si vede ch’egli vi andò in quella settimana.


«Non temerariamente, ma con animo consigliato e sicuro. Quante tempeste pria che la Morte potesse parlare così pacatamente con me — ed io così pacato con lei!

Sull’urna tua, Padre Dante! — Abbracciandola mi sono prefisso ancor più nel mio consiglio. M’hai tu veduto? m’hai tu forse, Padre, ispirato tanta fortezza di senno e di cuore, mentr’io genuflesso con la fronte appoggiata a’ tuoi marmi, meditava e l’alto animo tuo, e il tuo amore, e l’ingrata tua patria, e l’esilio, e la povertà, e la tua mente divina? E mi sono scompagnato dall’ombra tua più deliberato e più lieto.»