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PREFAZIONE XXXVII

che l’espressione della stessa essenza drammatica non rimaneva piú affidata alla sola parola, bensí anche alla parola esaltata dal canto.

E questo era un errore. Il mezzo legittimo e piú efficace per la espressione dei sentimenti e delle passioni, quando esse si devono concretare, come avviene in sede drammatica, è la parola. Legittimo ed insostituibile. Inutile insistere in teorie. Prendete, per esempio, nell’Edipo re, il fiero contrasto di vita e di morte fra Edipo e Tiresia; o, nell’Antigone, l’ultimo saluto dell’eroina alla vita; o, in Shakespeare, la tremenda imprecazione di Re Lear a Goneril; o il monologo d’Amleto: rivestite queste scene di note, e siano pure ispirate; e sentirete che la profonda entità drammatica ne riesce diminuita, fatalmente; e in qualche caso — per esempio nell’ultimo — sarà ben difficile evitare il ridicolo.

E altrettanto dové avvenire in Euripide. Quel Polimèstore, che nell’Ecuba, appena accecato, esce cantando, non convince. Quando Ecuba, visto il cadavere del dilettissimo Polidoro, canta, fa quasi stizza. E quando Ifigenia, dopo il monologo recitato, che tocca d’un lancio le piú alte vette della poesia e della commozione, si mette ad intonare una monodia, con immagini piú adatte a sostenere un canto che ad esprimere uno strazio, noi sentiamo una fatale diminuzione dove il poeta, evidentemente, cercava una sublimazione. E cosí in tanti altri luoghi, che si trovano ricordati nelle singole prefazioni, o che il lettore facilmente scoprirà da sé, leggendo le tragedie.

E peggio fu in seguito. Perché, se il regno fu in principio diviso fra la parola e la nota, ben presto la nota divenne soverchiatrice; e, invece di limitarsi alla vagheggiata intensificazione della parola, si sviluppò secondo proprie leggi, e queste impose alla parola.