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PREFAZIONE XXIX


I sommi creatori di caratteri — Eschilo, Sofocle, Shakespeare — non studiano troppo con lo strumento dell’analisi i loro personaggi, non anatomizzano, per intenderli, i dati della tradizione; ma i personaggi si impongono alla loro sensibilità artistica, quali, su per giú, li dipinge la leggenda, con tutte le loro caratteristiche, buone o cattive, angeliche o mostruose. La fantasia del poeta lavora su quei dati. E sul fulcro dei punti cogniti distende spontaneamente, inconsciamente, un panneggio, o, meglio, un tessuto connettivo, che porta la figura dallo schema della tradizione alla concreta espressione dell’arte, emula della integrità vitale. E la figura cosí nata nel segreto milluogo della fantasia, vive poi per suo conto, indipendentemente, e, spesso, in contrasto con la volontà del poeta. Non sono concetti nuovi, e ciascuno potrà agevolmente svolgerli, ed esemplificare.

Ora, non è che Euripide fosse destituito di tale facoltà di visione e di allucinazione: se no, non sarebbe stato poeta; ed era, e grandissimo. Ma accanto, c’era lo spirito critico. E, come i due cavalli del Fedro platonico, una delle due facoltà tirava di qua, una di là. E il poeta, quando rallentava di piú le briglie all’uno, quando all’altro. Piú spesso alla puledra Ragione, sicura divoratrice di piani, che all’alta Intuizione, usa a valicar le nubi. E cosí il carro, come appunto quello del Fedro, va un po’ a caso. Cosí, e usciamo dai miti e dalle immagini, alcuni dei suoi personaggi si muovono con libertà quasi assoluta, ed hanno la medesima libertà e indipendenza della vita: Medea, per esempi, Alcesti, Ifigenia. Altri devono muovere un po’ curvi sotto il pesante fardello del lavorio critico che il poeta ha prima compiuto per vederli, e del quale non s’è potuto sbarazzare durante la costruzione scenica. Altri, sotto questa grave mora, sembrano quasi soccombere.