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al vate venerato, «come aspettando il fato». Tra le Carte Manzoniane ereditate dal figliastro è stato rinvenuto questo singolare biglietto, che il «23 giugno ’59» il Tommaseo diresse a donna Teresa Manzoni:

Se ambasciatore non porta pena, io spero perdono dell’ardimento di questa lettera, che non scriverei di mio capo; ma c’è delle cose che, dette, bisogna ridire per discarico di coscienza. Scrìvesi a me: la questione del dominio temporale, dalla quale dipendono le sorti d’Italia, a scioglierla in modo conforme e all’onore e alla fede degl’Italiani, aiuterebbe, assai più dell’armi e delle negoziazioni, la voce d’uomo autorevole per la pietà religiosa e la moderazione dell’animo, per la potenza dell’ingegno e del nome. Chi sia quest’uomo la modestia dell’affetto coniugale non lo può nascondere a Lei. Non c’è che la troppa modestia di lui stesso che possa reprimere il suo zelo e coraggio, e farglisi scusa. Ella veda di vincerla. Qui ci vuole (dirà lui) un volume. No: una lettera, due versi bastano; anzi questo ci vuole. Io non dico di più. Ho fatto il debito mio; e di bel nuovo chiedo perdono. Mille augurii di cuore.

Ma, quale che ne fosse la ragione, il labbro del poeta non proferì l’attesa parola: «ei fe’ silenzio». E ne rimasero sconcertati Guelfi e Ghibellini. Sennonchè, un anno dopo, ce déplorable Manzoni, il quale nel 1848 non aveva voluto accettare d’esser deputato, accettò invece con entusiasmo «dal suo Re», che voleva dire dal re d’Italia, la nomina di senatore. Ho riferita altrove (p. 414), dalle Curiosità e ricerche di storia subalpina del Carruti (vol. V, p. 114), la lettera che in quella occasione il poeta diresse al conte di Cavour. Ha la data di Milano, 9 aprile 1860; e termina così:

Presentando anche all’Eccellenza Vostra i miei ben dovuti ringraziamenti, La prego di voler gradire la nova protesta del profondo, cordiale e a Lei ben noto ossequio, col quale ho l’onore di dirmi dell’Eccellenza vostra l’umil.mo obbl.mo servitore Alessandro Manzoni.

E non accettò quella nomina quasi fosse un’onorificenza cavalleresca o accademica. Volle essere, e fu, un senatore sul serio. Ai primi di giugno del ’60 andò a Torino, per prestarvi il giuramento; e il 7, o forse meglio l’8, sceriveva di là al suo figliastro Stefano Stampa questa lettera, solo di recente rinvenuta e pubblicata (Carte ined. Manzoniane, p. 52-4):