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teofrasto


4.


LA CAFONERIA

La cafoneria parrebbe essere ignoranza screanzata, e il cafone un tale che bevuto il ciceòne se ne va all’assemblea, e dice che il profumo non ha odore più soave della cipolla, e porta scarpe più grosse del piede, e parla a voce alta. Ed è diffidente con gli amici e con quei di casa, ma si consiglia coi servi sugli affari più gravi; e alle opere che lavorano a soldo da lui in campagna racconta tutto quel che ha sentito dire all’assemblea. E si mette a sedere tirando la veste sopra il ginocchio così da quasi mostrar le pudenda1 e di nessun’altra cosa per le strade si maraviglia o resta stupito, ma se vede un bue, un asino o un caprone si ferma e li guarda. E se poi prende qualche cosa dalla credenza la mangia con voracità e beve alla botte, e procura che non lo venga a sapere2 la serva che fa il pane, ma poi insieme con lei prepara per tutti di casa e per sé il macinato che gli bisogna. E quando fa lo spuntino getta nello stesso tempo il fieno a’ giumenti; e alla porta va lui a sentire chi è3, e, chiamato il cane e presolo per il muso dice: Ecco chi mi guarda il podere, la casa e quei di dentro. E se da qualcuno riceve danaro, lo rifiuta perché la moneta è tosa, e se la fa barattare con altra. E

    il quale, tormentato da un parolaio che gli faceva lunghi e tediosi discorsi e interrogato di tratto in tratto dalla domanda «non è ciò assai strano o Aristotele?», rispose alla fine, non potendone più, «no, non è strano, ma è strano invece che chi ha i piedi per correre tolleri te e le tue ciarle». Naturalmente queste cose Teofrasto non le leggeva in Plutarco che è piú giovane di tre secoli, ma le conosceva perché qualcuno le raccontava o Aristotele stesso le aveva raccontate a lezione. Ho tradotto «ozio e negozio» alla latina.


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