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l’elegantissimo teofrasto

A me sembra pertanto che le parole del morente Teofrasto in Cicerone e in Diogene Laerzio una cosa soprattutto lamentino, la brevità della vita umana e la difficile condizione dell’uomo che, per correre dietro al vano rumor della gloria assai tardi s’accorge ch’egli medesimo ha sottratto tempo prezioso alle preziosissime gioie della sapienza e dello studio. E dunque Teofrasto esorta i discepoli a seguire o le vanità della vita o gli studi, o la mondana gloria che pur nella felicità ch’essa procura è tuttavia svantaggiosa o la fatica delle ricerche che però procurano fama e l’interiore felicità dello spirito. Aveva Teofrasto amato gli studi e la gloria mondana e la gloria vera sopra ogni cosa, e si avvedeva solo tardi che anch’egli per correr dietro alle vanità della vita aveva sottratto tempo prezioso all’esercizio della virtù, e però conobbe e dichiarò formalmente l’inutilità dei sudori umani, la poca proporzione che passa tra la virtù e la felicità della vita, e quanto prevalga la fortuna sul valore in quello che spetta alla medesima felicità così degli altri come ancor dei sapienti e dabbene.

Anche Cicerone scriverà che gli onori disingannano meglio che le sventure, e negli «Uffizi» finirà col dire come Teofrasto quae putavi esse praeclara expertus sum quam essent inania. E però penso che così siano da intendere le parole di Teofrasto e che in questo senso siano anche da correggere le considerazioni di Giacomo Leopardi in quella delle appendici alle «Operette morali» che tratta della comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte. Io non so dire se Teofrasto si credesse felice, e non oso immaginarlo, conoscendo quali punte di scetticismo e di feconda ironia potessero impedirgli di giudicarsi felice; ma posso dire ch’egli, no, non era di quelli i quali si compiacciono di affermare che il sapiente è felice per sé; ma che, pur devotamente legato alla sua scuola dove si recò fino negli ultimi giorni facendosi trasportare in lettiga perché vecchio e sofferente e pure acclamato per le vie di Atene e suntuosamente onorato di funebri fastosi alla sua morte, egli era comunque arrivato a conoscere «la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienza medesima».


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