Operette morali/Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte

Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte

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Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte
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Io non credo che si trovi in tutte le memorie dell’antichità voce più lagrimevole e spaventosa, e con tutto ciò, parlando umanamente, più vera di quella che Marco Bruto, poco innanzi alla morte, si racconta che profferisse in dispregio della virtù: la qual voce, secondo ch’è riportata da Cassio Dione, è questa: O virtù miserabile, eri una parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa; ma tu sottostavi alla fortuna. E comunque Plutarco nella Vita di Bruto non tocchi distintamente di questa sentenza, laonde Pier Vettori dubita che Dione in questo particolare faccia da poeta più che da storico,’ si manifesta il contrario per la testimonianza di Floro, il quale afferma che Bruto vicino a morire proruppe esclamando che la virtù non fosse cosa ma parola. Quei moltissimi che si scandalezzano di Bruto e gli fanno carico della detta sentenza, danno a vedere l’una delle due cose; o che non abbiano mai praticata familiarmente colla virtù, o che non abbiano esperienza degl’infortuni, il che, fuori del primo caso, non pare che si possa credere. E in ogni modo è certo che poco intendono e meno sentono la natura infelicissima delle cose umane, o si maravigliano ciecamente che le dottrine del Cristianesimo non fossero professate avanti di nascere. Quegli altri che torcono le dette parole a dimostrare che Bruto non fosse mai quell’uomo santo e magnanimo che fu riputato vivendo, e conchiudono che morendo si smascherasse, argomentano a rovescio: e se credono che quelle parole gli venissero dall’animo, e che Bruto, dicendo questo, ripudiasse effettivamente la virtù, veggano come si possa lasciare quello che non s’è mai tenuto, e disgiungersi da quello che s’è avuto sempre discosto. Se non l’hanno per sincere, ma pensano che fossero dette con arte e per ostentazione; primieramente che modo è questo di argomentare dalle parole ai fatti, e nel medesimo tempo levar via le parole come vane e fallaci? volere che i fatti mentano perché si stima che i detti non suonino allo stesso modo, e negare a questi ogni autorità dandoli per finti? Di poi ci hanno a persuadere che un uomo sopraffatto da una calamità eccessiva e irreparabile; disanimato e sdegnato della vita e della fortuna; uscito di tutti i desideri, e di tutti gl’inganni delle speranze; risoluto di preoccupare il destino mortale e di punirsi della propria infelicità; nell’ora medesima che esso sta per dividersi eternamente dagli uomini, s’affatichi di correr dietro al fantasma della gloria, e vada studiando e componendo le parole e i concetti per ingannare i circostanti, e farsi avere in pregio da quelli che coli si dispone a fuggire, in quella terra che se gli rappresenta per odiosissima e dispregevole. Ma basti di ciò.

Laddove le soprascritte parole di Bruto s’hanno tutto giorno, si può dire, fra le mani; queste che soggiungerò di Teofrasto moribondo, non credo che uscissero mai delle scritture degli eruditi (dove anche non so il conto che se ne faccia), non ostante che sieno degnissime di considerazione, e che abbiano molta corrispondenza col detto di Bruto sì per l’occasione in cui furono pronunziate, e sì per la sostanza loro. Diogene Laerzio le riferisce, copiando, per quello ch’io mi persuado, qualche scrittore più antico e più grave, com’è solito di fare. Dice dunque che Teofrasto venuto a morte e domandato da’ suoi discepoli se lasciasse loro nessun ricordo o comandamento, rispose: Niuno; salvo che l’uomo disprezza e gitta molti piaceri a causa della gloria. Ma non così tosto incomincia a vivere, che la morte gli sopravviene. Perciò l’amore della gloria è così svantaggioso come che che sia. Vivete felici, e lasciate gli studi, che vogliono gran fatica; o coltivategli a dovere, che portano gran fama. Se non che la vanità della vita è maggiore che l’utilità. Per me non è più tempo a deliberare: voi altri considerate quello che sia più spediente. E così dicendo spirò.

Altre cose dette da Teofrasto vicino a morte si trovano mentovate da Cicerone e da san Girolamo, e sono più divulgate; ma non fanno al nostro proposito. Per queste che abbiamo veduto si risolve che Teofrasto in età di sopra cent’anni; avendola spesa tutta a studiare e scrivere, e servire indefessamente alla fama; ridotto, come dice Suida, all’ultimo della vita per l’assiduità medesima dello scrivere; circondato da forse duemila discepoli, ch’è quanto dire seguaci e predicatori delle sue dottrine; riverito e magnificato per la sapienza da tutta la Grecia, moriva, diciamo così, penitente della gloria, come poi Bruto della virtù. Le quali due voci, gloria e virtù, non veramente oggi, ma fra gli antichi sonavano appresso a poco il medesimo. E però Teofrasto non seguitò dicendo che la stessa gloria le più volte è opera della fortuna piuttosto che del valore; il che non si poteva dire anticamente così bene come oggidì: ma se Teofrasto l’avesse potuto aggiungere, non mancava al suo concetto nessuna parte che esso non fosse ragguagliatissimo a quello di Bruto.

Questi tali rinnegamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi che abbelliscono o più veramente compongono la nostra vita, cioè tutto quello che ha della vita piuttosto che della morte, riescono ordinarissimi e giornalieri dopo che l’intelletto umano coll’andare dei secoli ha scoperto, non dico la nudità, ma fino agli scheletri delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consolazione e rimedio principale della nostra infelicità, s’è ridotta a denunziarla e quasi entrarne mallevadrice a quei medesimi che, non conoscendola, o non l’avrebbero sentita, o certo l’avrebbero medicata colla speranza. Ma fra gli antichi, assuefatti com’erano a credere, secondo l’insegnamento della natura, che le cose fossero cose e non ombre, e la vita umana destinata ad altro che alla miseria, queste sì fatte apostasie cagionate, non da passioni o vizi, ma dal senso e discernimento della verità, non si trova che intervenissero se non di rado; e però, quando si trova, è ragione che il filosofo le consideri attentamente.

E più maraviglia ci debbono fare le sentenze di Teofrasto, quanto che le condizioni della sua morte non si potevano chiamare infelici, e non pare che Teofrasto se ne potesse rammaricare, avendo conseguito e goduto fino allora per lunghissimo spazio il suo principale intento, ch’era stata la gloria. Laddove il concetto di Bruto fu come un’ispirazione della calamità, la quale alcune volte ha forza di rivelare all’animo nostro quasi un’altra terra, e persuaderlo vivamente di cose tali, che bisogna poi lungo tempo a fare che la ragione le trovi da se medesima, e le insegni all’universale degli uomini, o anche de’ filosofi solamente. E in questa parte l’effetto della calamità si rassomiglia al furore de’ poeti lirici, che d’un’occhiata (perocché si vengono a trovare quasi in grandissima altezza) scuoprono tanto paese quanto non ne sanno scoprire i filosofi nel tratto di molti secoli. In quasi tutti i libri antichi (o filosofi o poeti o storici o qualunque sieno gli scrittori) s’incontrano molte sentenze dolorosissime, che se bene oggidì corrono più volgarmente, non per questo si può dire che fra gli uomini di quei tempi fossero pellegrine. Ma esse per lo più derivano dalla miseria particolare ed accidentale di chi le scriveva, o di chi si racconta o si finge che le profferisse. E quei concetti o, parlando generalmente, quella tristezza e quel tedio che s’accompagnano tanto all’apparenza della felicità quanto alle miserie medesime e ch’hanno rispetto alla natura ed all’ordine immutabile e universale delle cose umane, è raro assai che si trovino significati ne’ monumenti degli antichi. I quali antichi quando erano travagliati dalle sventure, se ne dolevano in modo come se per queste sole fossero privi della felicità: la quale essi stimavano possibilissima a conseguire, anzi propria dell’uomo, se non quanto la fortuna gliela vietasse.

Ora volendo cercare quello che potesse avere indotto nell’animo di Teofrasto il sentimento della vanità della gloria e della vita, il quale a ragguaglio di quel tempo e di quella nazione, riesce straordinario; troveremo primieramente che la scienza del detto filosofo non si conteneva dentro ai termini di tale o tal altra parte delle cose, ma si stendeva poco meno che a tutto lo scibile (quanto era lo scibile in quell’età), come si raccoglie dalla tavola degli scritti di Teofrasto, lasciati perire la massima parte. E questa scienza universale non fu sufbordinata da lui, come da Platone, alla immaginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza, secondo l’uso di Aristotele; e indirizzata, non allo studio né alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero. Atteso queste particolarità, non è maraviglia che Teofrasto arrivasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienza medesima; essendo che le molte scoperte fatte da’ filosofi degli ultimi secoli circa la natura degli uomini e delle cose, vengano principalmente dal confrontare e dal rapportare che s’è fatto le diverse scienze, e quasi tutte le discipline tra loro, e dall’averle collegate l’une coll’altre e per questo mezzo considerate le relazioni che intervengono tra le varie parti della natura, ancorché lontanissime, scambievolmente.

Oltracciò dal libro dei Caratteri si comprende che Teofrasto vide nelle qualità e nei costumi degli uomini così addentro, che pochissimi scrittori antichi gli possono stare a lato per questo rispetto, se non forse i poeti. Ma questa facoltà è segno certo d’un animo che sia capace d’affezioni molte e varie e potenti. Perciocché le qualità morali come anche gli affetti degli uomini, volendoli rappresentare al vivo, non tanto si possono ricavare dall’osservazione materiale de’ fatti e delle maniere altrui, quanto dall’animo proprio, eziandio quando sono disparatissimi dagli abiti dello scrittore. Secondo quello che fu detto dal Massillon interrogato come facesse a dipingere così al naturale i costumi e i sentimenti delle persone, praticando, com’esso faceva, assai più nella solitudine che fra le gente. Rispose: considero me stesso. Così fanno i Drammatici e gli altri poeti. Ora un animo capace di molte conformazioni, cioè molto delicato e vivo, non può far che non senta la nudità e l’infelicità irreparabile della vita e non inclini alla tristezza, quando i molti studi l’abbiano assuefatto a meditare, e specialmente se questi riguardano all’essenza medesima delle cose, nel modo che s’appartiene alle scienze speculative.

Certo è che Teofrasto, amando gli studi e la gloria sopra ogni cosa, ed essendo maestro o vogliamo dire capo di scuola, e di scuola frequentatissima, conobbe e dichiarò formalmente l’inutilità de’ sudori umani, e così degl’instituti suoi propri come degli altrui; la poca proporzione che passa tra la virtù e la felicità della vita; e quanto prevaglia la fortuna al valore in quello che spetta alla medesima felicità così degli altri come anche de’ sapienti. E forse in queste conoscenze passò tutti i filosofi greci, massime quelli che vennero avanti Epicuro, con tutto che fosse diversissimo e ne’ costumi e nelle sentenze da quello che poi furono gli Epicurei. Tutto questo si ricava, non solamente dalle cose dette di sopra, ma da’ riscontri che s’hanno degl’insegnamenti di Teofrasto in parecchi luoghi degli scrittori antichi. E quasi ch’egli avesse avuto a dimostrare cogli accidenti suoi propri la verità delle sue dottrine; primieramente non è tenuto da’ filosofi moderni in quella stima che dovrebbe, essendo perduti da più secoli, per quello che se ne sappia, tutti i suoi libri morali, eccetto solo i Caratteri, come anche sono perduti i libri politici o appartenenti alle leggi, e quasi tutti quelli di metafisica. Oltre di ciò, non che i filosofi antichi lo celebrassero per aver veduto più di loro, anzi per questo rispetto medesimo lo vituperarono e maltrattarono, e particolarmente quelli, tanto meno sottili quanto più superbi, i quali si compiacevano d’affermare e di sostenere che il sapiente è felice per se; volendo che la virtù o la sapienza basti alla beatitudine; quando sentivano pur troppo bene in se medesimi che non basta, se però avevano effettivamente o l’una o l’altra di quelle condizioni. Della qual fantasia non pare che i filosofi sieno ancora guariti, anzi pare che sieno peggiorati non poco, volendo che ci debba menare alla felicità questa filosofia presente, la quale in somma non dice e non può dir altro, se non che tutto il bello, il piacevole e il grande è falsità e nulla. Ma per non dividerci da Teofrasto, i più degli antichi erano incapaci di quel sentimento doloroso e profondo che l’animava. Teofrasto è malmenato nei libri e nelle scuole di tutti i filosofi per aver lodato nel Callistene quel motto: non la sapienza ma la fortuna è signora della vita. Negano che un filosofo dicesse mai cosa più fiacca di questa. Sono parole di Cicerone, il quale in altro luogo scrive che Teofrasto nel libro della vita beata dava molto alla fortuna, cioè a dir che la sentenziava per cosa di gran momento in riguardo alla felicità. E quivi a poco soggiunge: A ogni modo serviamoci di Teofrasto in molti punti, salvo che s’attribuisca alla virtù più consistenza e più gagliardia che questi non le diede. Vegga esso Cicerone quello che se le possa dare.

Forse per questi ragionamenti alcuno conchiuderà che Teofrasto avesse a far professione di poco affezionato agli errori naturali, anzi che dal canto suo dovesse provvedere cogl’insegnamenti e colle azioni di sequestrarli dall’uso domestico e pubblico della vita, e di stringere gli effetti e la signoria dell’immaginativa, allargando i termini alla ragione. Ma s’ha da sapere che Teofrasto fu ed operò tutto il contrario. In quanto alle azioni, abbiamo in Plutarco nel libro contra Colote che il nostro filosofo liberò due volte la sua patria dalla tirannide. In quanto agl’insegnamenti, Cicerone dice che Teofrasto in un libro che scrisse delle ricchezze, si distendeva molto a lodare la magnificenza e l’apparato degli spettacoli e delle feste popolari, e metteva nella facoltà di queste spese molta parte dell’utilità che proviene dalle ricchezze. La qual sentenza è biasimata da Cicerone e data per assurda. Io non voglio contendere con Cicerone sopra questa materia, se bene io so e vedo ch’egli si poteva ingannare e tastar le cose con quella filosofia che penetra poco addentro. Ma l’ho per uomo così ricco d’ogni virtù privata e civile, che non mi basta l’animo d’accusarlo che non conoscesse i maggiori incitamenti e i più fermi propugnacoli della virtù che s’abbiano a questo mondo, voglio dir le cose appropriate a stimolare e scuotere gli animi ed esercitare la facoltà dell’immaginazione. Solamente dirò che qualunque o fra gli antichi o fra’ moderni conobbe meglio e sentì più forte e più dentro al cuor suo la nullità d’ogni cosa e l’efficacia del vero, non solamente non procurò che gli altri si riducessero in questa sua condizione, ma fece ogni sforzo di nasconderla e dissimularla a se medesimo, e favorì sopra ogni altro quelle opinioni e quegli effetti che sono valevoli a distornarla, come quello che per suo proprio esperimento era chiarito della miseria che nasce dalla perfezione e sommità della sapienza. Nel qual proposito si potrebbero allegare alcuni esempi molto illustri, massime de’ tempi moderni. E in vero, se i nostri filosofi intendessero pienamente quello che s’affaticano di promulgare, o (posto che l’intendano) se lo sentissero, cioè a dire, se l’intendessero per prova, e non per sola speculazione; in cambio d’aversi a rallegrare di queste conoscenze, ne piglierebbero odio e spavento; s’ingegnerebbero di scordarsi quello che sanno e quasi di non vedere quello che vedono; rifuggirebbero, il meglio che potessero fare, a quegl’inganni fortunatissimi che, non questo o quel caso, ma la natura universale avea posto di sua propria mano in tutti gli animi; e finalmente non crederebbero che importasse gran cosa di persuadere altrui che niuna cosa importa quando anche paia grandissima. E se fanno questo per appetito di gloria, concedano che in questa parte dell’universo non possiamo vivere se non quanto crediamo e ponghiamo studio a cose da nulla.

Altra circostanza per la quale il caso di Teofrasto differisce notabilmente da quello di Bruto, si è la natura diversa de’ tempi. Perocché Teofrasto gli ebbe, se non propizi, tuttavia non ripugnanti a quei sogni e a quei fantasmi che governarono i pensieri e gli atti degli antichi. Laddove possiamo dire che i tempi di Bruto fossero l’ultima età dell’immaginazione, prevalendo finalmente la scienza e l’esperienza del vero e propagandosi anche nel popolo quanto bastava a produr la vecchiezza del mondo. Che se ciò non fosse stato, né quegli avrebbe avuta occasione di fuggir la vita, come fece, né la repubblica romana sarebbe morta con lui. Ma non solamente questa, bensì tutta l’antichità, voglio dir l’indole e i costumi antichi di tutte le nazioni civili, erano vicini a spirare insieme colle opinioni che gli avevano generati e gli alimentavano. E già mancato ogni pregio a questa vita, cercavano i sapienti quel che gli avesse a consolare, non tanto della fortuna, quanto della vita medesima, non riputando per credibile che l’uomo nascesse propriamente e semplicemente alla miseria. Così ricorrevano alla credenza e all’aspettativa d’un’altra vita, nella quale stesse quella ragione della virtù e de’ fatti magnanimi, che ben s’era trovata fino a quell’ora, ma già non si trovava, e non s’aveva a trovare mai più, nelle cose di questa terra. Dal quali pensieri nascevano quei sentimenti nobilissimi che Cicerone lasciò spiegati in più luoghi, e particolarmente nell’orazione per Archia.