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teofrasto

per di più narra il dibattimento di Demostene1 che ci fu allora che era arconte Aristofonte, e l’altro dei Lacedemoni al tempo di Lisandro, e i discorsi che tenne anche lui con bello onore dinanzi al popolo. E mentre fa cotesti racconti getta di mezzo invettive contro la moltitudine2, talché gli ascoltanti o perdono il filo, o dondolano il capo, o piantatolo a mezzo se ne vanno. E se è giudice insieme con altri impedisce di giudicare; e se siede a teatro non lascia goder lo spettacolo; e a tavola non lascia mangiare. E dice che per un uomo ciarliero è penoso star zitto, e che la lingua è in mollo3, e che non saprebbe star zitto neppur se dovesse apparire più chiacchierino di una rondine7. E sopporta d’essere motteggiato anche dai propri figlioletti, quand’essi, volendo addormentarsi, lo pregano così: «Babbino, chiacchiera un po’ affinché ci prenda il sonno».

So che «ciarleria» è raro nell’uso, ma non saprei tradurre diversamente, avendo già tradotto il titolo del terzo carattere con «loquacità». E traduco λάλος con «cicalone», che è ciarliere per vizio e lo fa senza garbo perdendosi in ciarle dannose e soprattutto noiose. In latino il «cicalone» è, come si lesse in Plauto, lingulàca, che Aulo Gellio glossa con blatero o locutuleius o linguax.

Traduco «smozzature» il greco ἀρχάς, che letteralmente sarebbe «cominciamenti».

ἀπογυμνώσηι, che sarebbe «denudare»; bellissima immagine, ma forse in italiano poco efficace se tradotta alla lettera. O, se no, da tradurre «dopo che li ha messi a nudo».

  1. Leggo τοῦ ῥήτορος, intendendo che si alluda a Demostene oratore per eccellenza e alla sua orazione per la Corona del 330. Più innanzi, sarà da intendere che Teofrasto alluda alle competizioni per la nomina dei trenta tiranni nel 404, allorché, occupata Atene da Lisandro e dai Lacedémoni, fu imposto il governo oligarchico.
  2. Probabilmente «contro il governo democratico», che sarà certamente un oligarca il nostro cicalone. Cfr. il carattere ventesimosesto.
  3. Ho tradotto letteralmente. E a tal proposito ricordo che Aulo Gellio, nel decimoquinto capitolo del primo libro delle sue «Notti Attiche», ci parla dei cicaloni innixi verbis uvidis, e della stulta

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