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298 r. serra

Lo strazio delle carni del peccatore, e la loro dispersione per mezzo d’una turba di cagne fameliche, è certo in relazione collo sperpero violento e brutale che il peccatore fa de’ suoi beni, col trafugamento del suo patrimonio per le mani dei mille che glie lo cacciano.

Allora son le cagne i creditori e gli usurai? Sì e no, vorrei rispondere io; son tutto ciò che fastidisce e perseguita e punisce su la terra gli scialacquatori: i creditori, e gli usurai così, come le «indigentiae supervenientes» e le rimorsioni.

Si tratta sempre (a voler dare una portata generale alle nostre osservazioni) di una imagine sensibile che suggerisce con grande libertà un pensiero astratto: Dante ha pensato solo che com’è straziato il dissipatore in vita, così sarà, dopo morte, dilaniato dai cani. L’allegoria è tutta qui.

E poi ha fatto il suo lavoro, senz’altro intendimento che quel d’un poeta: e la selva è proprio una selva, la caccia è caccia, le cagne son cagne.

Son proprio le cagne che correvano anche per la pineta di Ravenna in traccia di misere anime dannate. Non han sensi nascosti, nè secreta natura, nè origine antica. Se pur non si voglia pensare che Dante le fece femmine ricordando le «cagne ululanti per l’ombra» del VI dell'Eneide; e quasi col riposto intendimento di mostrar che non obliava il modello classico, anche allora che toglieva la sua materia dal popolo. Solo con questo temperamento si potrebbe forse accettare la affermazione, che sopra citai, per combatterla, del Pascoli.

Così ho finito il mio, già troppo lungo, discorso. Del quale ecco, in poche parole, il succo. Nella figurazione della pena dei dissipatori (e forse quel ch’io dico si potrebbe allargare a quasi tutte le pene, che son ritratte nella Commedia) son da distinguere due elementi diversi: il significato ideale, e le forme plastiche, concrete. Io ho cercato di dimostrare che non si può con uno solo di questi elementi render ragione dei particolari atteggiamenti dell’altro; e che vana fatica fu quella di molti interpreti, che tennero siffatta sentenza.

L’elemento, diciamo pure, realistico non è asservito all’astratto: ma ha vita, origine, svolgimento proprio e indipendente. Sotto questo punto di vista, la pena dei dissipatori non è altro che la popolare leggenda della caccia selvaggia, riprodotta da Dante, e rifatta, con arte divina.

Renato Serra.