per quotidiana usanza ranno a torno, o pendono da vestiboli di templi e di case, e da colonne di portici abbondantissime poesie di ogni conio, che includono publici voti, inni festivi, domestiche congratulazioni, questa stessa lirica superfluità cade ad onore, non a biasmo di nazione, che anche in ciò fa segno di Attica fantasia, di Attica gentilezza. Lo studiare in latinità scemò d’allora che fu visto non essere come per lo innanti agevole scala agli onori; d’allora, che fu dottamente disputato e statuito essere avvenuta nocevole all’incremento delle Italiane lettere non la conoscenza, non la modica, ma la soverchia usanza di dettare in lingua, che affatto cessò di vivere quando nacque la nostra. Orazio Flacco, poich’ebbe sottratta la mano ai colpi del flagellifero Orbilio, scrisse versi greci in sino a che il buon suo Genio venne ad ammonirlo di non portar legna al bosco. Buono non meno fu il consiglio, che le Italiche Muse diedero a Dante Alighieri di lasciare il latino pel volgare, e a Lodovico Ariosto di non arrendersi alla esortazione del Bembo. Orazio fu greco prima che latino, e latini prima che Italiani furono Dante, Petrarca, Ariosto, e quanti ad esempio dettarono nella nostrale favella. Mercè l’avere attinto a’ fonti del Lazio, l’Italia tuttavia si onora di non pochi egregi scrittori sì in prosa e sì in versi, massimamente dal tempo, che riducendosi alla scuola de’ suoi prischi maestri scosse da sè quanto di fastidioso neologismo la ingombrava. Francesco Petrarca tardi si addiede di avere soverchiamente usato il sermone latino. Angelo Poliziano, che a poca italiana poesia deve sua più chiara fama, perpetuo latino scrittore non fe’ se-