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          “Cui mens divinior atque os
          Magna sonaturum”

A questi debitamente le prime onoranze. Però non senza segni di lieta accoglienza furono in quella Roma accettate le fatiche di chi fe’ comuni al materno linguaggio non pochi tesori della greca eloquenza. Cecilio, Pacuvio, ed altri trasportarono sul teatro latino tragedie e commedie greche. Plauto e Terenzio seguirono si d’appresso le poste di Epicarmo e di Menandro, che ne furono tenuti più che imitatori. Demostene, Eschine, Senofonte, Arato, Callimaco, Saffo per opera di Cicerone e di Ovidio e, se non è vana la congettura del celebre Ennio Quirino Visconti, i Treni delle Eroine di Pindaro nelle Eroidi di Ovidio ebbero cittadinanza romana. Racconta Orazio, che il Romano in pace dopo la fine della guerra punica si piaceva in cercare, e vestire di latino paludamento le tragedie di Tespi di Eschilo e di Sofocle:

     “Et post punica bella quietus quaerere caepit
     Quid Sophocles, et Thespis, et Aeschilus utile ferret;
     Tentavit quoque rem si digne vertere posset,
     Et placuit sibi”.

E per dir de’ nostrali, le vite de’ Ss. Padri esemplari di locuzione italiana, sono volgarizzamenti di latino. Si loda in voce di aurea la vena di Annibal Caro e di Angelo Firenzuola, pe’ quali alle italiche letterarie dovizie si accrebbero l’epico poema di Virgilio, il romanzo di Longo So-