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mosso, per lo che, lasciata da banda la caccia delle eleganze sì care alla semplicità degli avi, dovere filosofi e poeti con sublimi dottrine, e con maravigliosi parti di ardente fantasia rispondere alla publica aspettazione. A tali ragionamenti tengono dietro vivaci similitudini: fiori, che nel viaggio perdono ogni freschezza, liquore, che travasato svanisce, copia di pittura, rovescio di ricamo. Questa sentenza publicata da tale, che nel secolo scorso fu terzo fra vivi eccellenti poeti Italiani, venne come voce data dal tripode di Delfo. Virgilio là dagli Elisi chiamato per una stessa cortina rispose: trovarsi nella Divina Commedia versi non più che cinquanta meritevoli di vivere, doversi il rimanente alle fiamme. Erano in quel tempo le nostre lettere infestate da neologismo, che uscito di Francia visitò quasi tutte le scuole d’Italia. Col più famoso di ogni generazione di lettere, che là vivesse, usò il Bettinelli, e forse imparò da lui ad apprezzare il massimo de’ nostri scrittori; se non che il signor di Voltaire si mostrò più benigno a quel Grande, nel cui poema non lasciava di ammirare il canto di Francesca da Rimini, e quello del Conte Ugolino. Angusto e macro giudizio da perdonare ad uomo straniero all’Italia. Appartengono que’canti a genere tragico. L’ardore degli affetti, lo splendore delle imagini, la vaghezza delle descrizioni, la nobiltà delle voci, il pomposo retorico o politico atteggiamento sono mezzi, pe’ quali l’epicotragica magniloquenza si partecipa, e si apprende agevolmente all’intelletto e al senso di civili nazioni. La Gerusalemme Liberata, i drammi di Pietro Metastasio oltre il mare e le alpi da ogni gentil persona sono letti e piaciuti più che la Divina Com-