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gli strinse la mano con la franchezza di un libero cittadino. Questo accanito nemico dell’Austria, cupo entusiasta dell’italiana indipendenza, uscì da quel palazzo pieno la mente del pensiero, che quel giorno sospirato in ogni istante di sua vita stava finalmente per ispuntare.

L’indomani, primo giorno di quaresima, tutto taceva e quel silenzio ricopriva i nostri preparativi. La rivoluzione doveva scoppiare a Torino; il re era a Moncalieri quattro miglia italiane distante. Trovo inutile dare qui i particolari di un progetto che non ebbe esecuzione; dirò solo che tutto era concertato in modo che il voto del popolo e dell’esercito apparisse in tutta la sua evidenza al re, non si lasciasse tempo di procrastinare al titubante ministero e l’azione del governo mutata, potesse sul momento dirigersi contro il nemico d’Italia. Infinite precauzioni eransi adottate, non solo a prevenire i disastri, ma ben anco ad impedire tutta sorta di disordine che potesse compromettere la sicurezza delle persone e delle proprietà. Gli albori del giorno otto di marzo doveano essere l’istante di dar principio alla rivoluzione. Erasi stabilito che il conte di Santarosa ed il cav. di Collegno avrebbero passato la notte presso del principe per essere pronti a recarsi con lui all’arsenale sulle ore cinque del vegnente mattino. Il giorno 7 sembrò lento ai congiurati; ma che dirò della sera che chiuse quel malaugurato giorno? Una improvvisa voce si sparge fra loro: «il movimento non può più aver luogo perchè il principe ha ritirato la sua parola.» Pur troppo era vero! Carlo