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non che combinare il movimento col principe di Carignano.
Quattro persone n’andarono a lui sul cader del giorno; erano: Carlo di San Marsano, il conte di Santarosa, il cav. di Collegno ed il conte Lisio, capitano nei cavalleggieri del re. Introdotti per una scala secreta nella biblioteca del principe, vi trovarono una quinta persona che mi asterrò dal nominare. Carlo di San Marsano prese primo la parola; i suoi detti furono quelli di un uomo profondamente convinto. Non vi fu ostacolo, non difficoltà che quell’ardente immaginazione non ispianasse; accennavali quali erano da lui preveduti, ma tutti all’ascendente di fermo e risoluto volere impotenti. Fecero sentire al principe che dessi avevano in cospetto l’Italia e la posterità, che la rivoluzion piemontese avrebbe segnato l’epoca più gloriosa della casa di Savoia. Aggiunsero, e l’avvenire giustificò loro parole, che nel moto preparato nulla di sinistro era a temersi pel re e sua famiglia, cui i nostri petti sarebbero stati scudo in ogni occasione. Il conte di Santarosa svolse ad uno ad uno i modi a tenersi appena seguita la rivoluzione, onde assicurarne il risultato per l’interna libertà e l’indipendenza della patria. Nulla gli fu nascosto e queste memorande parole gli vennero indirizzate: «Principe, ogni cosa è presta, manca solo il vostro consenso: i nostri amici raunati attendono col nostro ritorno o il segnale di salvare il paese, o il funesto annunzio che son vane le loro speranze.» E il consenso fu da Carlo Alberto accordato; allora il conte di Santarosa