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oso lusingarmi che niuno potrà negare a quanto scrivo il carattere della verità. Non vi appongo il mio nome perchè non ne ho il coraggio *, e se le ragioni che potrei addurre in discolpa non varrebbero a giustificarmi agli occhi di un giudice severo, sarebbero però accolte da chiunque ha acquistato la trista esperienza dei mali di un esule.

Per formarsi un’idea giusta delle cause che operarono la rivoluzione piemontese, e per colpirne la vera natura, fa d’uopo rimontare all’epoca in cui la caduta del francese impero, rese al Piemonte la politica esistenza dei suoi principi. Non v’è cuore in Piemonte che non serbi soave memoria del 20 maggio 1814; giammai più commovente spettacolo offrì la città di Torino: quel popolo che si accalcava dattorno al suo principe, avida la gioventù negli sguardi di contemplarne le sembianze, impazienti i vecchi servitori e soldati di raffigurarle; quelle grida di gioia, quel contento spontaneo che brillava sul volto a ciascuno! Nobili, uomini del medio ceto, del popolo, del contado, tutti ne legava un solo pensiero, a tutti sorridevano le stesse speranze. Non più divisioni, non più tristi rimembranze; il Piemonte non dovea essere che una numerosa famiglia, Vittorio Emanuele dovea esserne il padre adorato.

Ma quel buon principe era circondato da consiglieri inetti che giunsero a persuaderlo doversi ristabilire


* Così il testo: je n’en ai pas eu le courage; ciò sembrerebbe una confessione di pusillanimità, se non si potesse comprendere che l’A. credè probabilmente inopportuno di provocare nuove persecuzioni poliziesche.