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torno alle immagini e le fissava nella memoria. Ciascun sistema d’idee medie nel suo studio di contentare e conciliare gli estremi va a finire irreparabilmente nel comico. Tutto quell’equilibrio dottrinale così laboriosamente formato del secolo decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica del divino e dell’assoluto declinante in teologia, quel volterianismo inverniciato d’acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di Giuseppe Giusti.

Giacomo Leopardi segna il termine di questo periodo. La metafisica in lotta con la teologia si era esaurita in questo tentativo di conciliazione. La moltiplicità de’ sistemi avea tolto credito alla stessa scienza. Sorgeva un nuovo scetticismo che non colpiva più solo la religione o il soprannaturale, colpiva la stessa ragione. La metafisica era tenuta come una succursale della teologia. L’idea sembrava un sostituto della Provvidenza. Quelle filosofie della storia, delle religioni, dell’umanità, del dritto avevano aria di costruzioni poetiche. La teoria del progresso o del fato storico nelle sue evoluzioni sembrava una fantasmagoria. L’abuso degli elementi provvidenziali e collettivi conduceva diritto all’onnipotenza dello Stato, al centralismo governativo. L’ecletismo pareva una stagnazione intellettuale, un mare morto. L’apoteosi del successo rintuzzava il senso morale, incoraggiava tutte le violenze. Quella conciliazione tra il vecchio ed il nuovo, tollerata pure come temporanea necessità politica, sembrava in fondo una profanazione della scienza, una fiacchezza morale. Il sistema non attecchiva più: cominciava la ribellione. Mancata era la fede nella rivelazione. Mancava ora la fede nella stessa filosofia. Ricompariva il mistero. Il filosofo sapeva quanto il pastore. Di questo mistero fu l’eco Giacomo Leopardi nella solitudine del suo pensiero e del suo dolore. Il suo scet-