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strate più vive. Napoli fatta repubblica e abbandonata poco poi a sè stessa ebbe in pochi mesi la sua epopea. Felici voi, Pagano, Cirillo, Conforti, Manthonè, cui il patibolo cinse d’immortale aureola! La loro morte valse più che i libri, e lasciò nel regno memorie e desiderii non potuti più sradicare. Sfuggirono alla strage alcuni patrioti che ripararono a Milano, e tra gli altri il Coco, che narrò gli errori e le glorie della breve repubblica con una sagacia aguzzata dall’esperienza politica. Milano divenne il convegno de’ più illustri patrioti. Metastasio e Goldoni, Filangieri e Beccaria erano morti da pochi anni. Bettinelli, il Nestore, sopravviveva a sè stesso. Alfieri, che ne’ primi entusiasmi avea cantata la liberazione dell’America e la presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della rivoluzione, sdegnoso e vendicativo sfogava nel Misogallo, nelle Satire l’acre umore, e contraddetto dagli avvenimenti, si seppelliva, come Parini, nel mondo antico, e studiando il greco, finiva la vita nel riso sarcastico di commedie triste. Cesarotti, addormentato sugli allori, recitava dalla cattedra lodi ufficiali e scriveva in versi panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio, maturava con poca speranza progetti e riforme. La vecchia generazione se ne andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti, professore, cavaliere, poeta di corte. I repubblicani a Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere regie. E non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i dolori e gli sdegni e le vergogne fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi.
Comparve Jacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri; si era abbandonato al lirismo di una insperata libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava l’eroe liberatore di Venezia, e l’eroe