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stesso impeto sopprime confidenti, personaggi, episodii. Nasce una forma nervosa, tesa, spesso convulsa, che risponde al suo modo di concepire e di sentire: perciò non pedantesca, anzi viva, interessante, sincera e calda espressione dell’anima. Se vogliamo conoscere il segreto di questa forma, vediamo non come è fatta, ma come è nata.
Alfieri cercò la tragedia non nel mondo vivo, ma nelle tragedie apparse. Trovò definizioni e regole, e le accettò per buone senza esame. Questo fu non il suo problema, ma il dato o l’antecedente. Poste quelle definizioni e quelle regole, il suo problema fu di recare a perfezione la tragedia. Conosceva poco la tragedia greca; avea letto Seneca; gli erano familiari le tragedie italiane e francesi. Ma di queste appunto facea poca stima come prolisse e rettoriche, e confidava di far meglio. Posto che la tragedia sia rappresentazione dell’eroico, la concepì come un conflitto di forze individuali, dove l’eroe soggiace alla forza maggiore. In Metastasio la forza maggiore è essa eroica, essa clemente e benefattrice: il mondo prodotto dalla sua immaginazione musicale è un riso, un canto, un inno, il mondo della misura e dell’armonia, glorificato e divinizzato. Qui la forza maggiore è la tirannide, o la oppressione, e la sua vittima è l’eroismo o la libertà; è il mondo della violenza e della barbarie condannato e marchiato a fuoco. Metastasio compiva un ciclo, Alfieri ne cominciava un altro. I contemporanei disputavano sullo stile dell’uno e dell’altro, e volevano somiglianza di stile in tanta opposizione di concetto.
Ponendo la tragedia, come conflitto di forze individuali, Alfieri rimaneva nel quadro delle tragedie francesi. Il secolo decimosettimo e decimottavo, come reazione al soprannaturale, cercava di spiegare la storia con mezzi umani e naturali, e rappresentavano come azione dei caratteri e delle passioni individuali quello