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per sè stesso, che si spiega naturalmente. Il poeta fissa l’esteriorità nel punto che è viva, quando cioè è atteggiata così o così per movimenti interni o esteriori, e non osserva, non riflette, non la scruta, non l’interroga, non cerca al di dentro, non la palpa, non la maneggia per volerla abbellire. Nessun movimento subbiettivo viene a turbare l’obbiettività del suo quadro; nessun movimento intenzionale. Non ci è il poeta, ci è la cosa che vive, e si move, e non vedi chi la move, e pare si mova da sè. Questa sublime semplicità nella piena chiarezza della visione è ciò che il Galilei chiamava a ragione la divinità dell’Ariosto. E non è solo nel minuto, ma nelle grandi masse. La sua vista rimane tranquilla e chiara ne’ più bruschi e complicati movimenti d’insieme. Indi è che dipinge duelli, battaglie, giostre, feste, spettacoli, paesaggi, castella, con quella purezza e semplicità di disegno che dipinge le cose minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie non ha più nulla di scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata, lisciata, e si vede l’intenzione dell’eleganza. Qui la superficie è così naturalmente piana, che ti par nata a quel modo, e che non possa essere altrimenti. Pigliamo ad esempio la rosa:

Questa di verdi gemme s’incappella;
Quella si mostra allo sportel vezzosa;
L’altra che in dolce foco ardea pur ora
Languida cade e il bel pratello infiora.

Qui la rosa m’ha aria di una fanciulla civettuola che prende questa o quell’attitudine per parer vezzosa. L’incappellarsi, lo sportello, quell’ardere in dolce foco, sono immagini appiccatele da immaginazione umana. È la rosa non nella sua naturalezza immediata, ma come pare all’uomo. Ci si vede il lavoro dello spirito, che l’orna e