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mita fa già presentire il Pontano e il Sannazzaro. Roma è il convegno di tutti gli eruditi, attirati dalla liberalità di Nicolò V. La coltura acquista una fisonomia nazionale, diviene italiana. Anche il volgare, trattato dalle classi colte ed atteggiato alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria italiana.
Ma è l’Italia de’ letterati, col suo centro di gravità nelle corti. Il movimento è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O, per dir meglio, popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche; mancata è ogni lotta intellettuale, ogni passione politica. Hai plebe infinita, cenciosa e superstiziosa, la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de’ letterati, esalata in versi latini. A’ letterati fama, onori e quattrini; a’ principi incensi, tra il fumo de’ quali sono giunti a noi Papa Nicolò, Alfonso il magnanimo, Cosimo padre della patria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e Leone decimo e i duchi di Este. I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio: il nemico dell’oggi diventa il protettore del dimani. Erranti per le corti, si vendevano all’incanto.
Questa fiacchezza e servilità di carattere accompagnata con una profonda indifferenza religiosa, morale e politica, di cui vediamo gli albori fin da’ tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto che è costume e abito sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinismo. Una certa ipocrisia c’è, quando si ha ad esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma quanto alla rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua nudità. È una letteratura senza veli, e più sfacciata in latino che in volgare.
Ne nasce l’indifferenza del contenuto. Ciò che importa non è cosa s’ha a dire, ma come s’ha a dire. I più sono secretarii di principi, pronti a vestire del loro latino concetti altrui. La bella unità della vita, come Dante