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gliate, mal costruite, e in sul più bello ti cascano. Nel genere eroico ti riesce sforzato e teso; nel genere idillico ti riesce volgare e abbandonato. Gli è che l’ottava nell’ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni è la maggiore idealità della forma poetica, e richiede un’attività geniale che manca al Boccaccio errante in un mondo artificiale e convenzionale. Il difetto è tutto al di dentro nell’anima; ciò che freddamente è concepito, nasce debole e mal congegnato e non ci vale artificio.

Qui al contrario l’autore è a casa sua: pinge un mondo, in cui vive, a cui partecipa con la più grande simpatia, e tutto in esso, gitta via ogni involucro artificiale. Ci è in lui qualche cosa più che il letterato, ci è l’uomo che vi guazza entro e vi si dimena e vi si strofina e vi lascivia. E n’esce una forma, che è quel mondo esso medesimo, di cui sente gli stimoli nella carne e nell’immaginazione. Così è venuta fuori quella forma di prosa, che si chiama il periodo boccaccevole.

A quel tempo il grande movimento letterario che aveva il suo centro a Firenze si era di poco allargato fuori di Toscana. La restaurazione dell’antichità che presentava all’immaginazione nuovi orizzonti, il mondo greco che allora spuntava appena, involto in quel vago chiaroscuro che accresce le illusioni, tirava a sè l’attenzione. La lingua di Dante non era ancora lingua italiana; la chiamavano idioma fiorentino. La lingua era sempre il latino, nè era mutata l’opinione che di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere in latino volgare, come si chiamavano i dialetti. Il Boccaccio dice di sè che scrive in idioma fiorentino, e quelli che usavano il volgare dice che scrivevano in latino volgare. Il tipo di perfezione era sempre il latino, e l’ideale vagheggiato dalla classe erudita era un volgare nobile o illustre, secondo quel modello configurato, un volgare alzato a quella stessa perfezione di forma. Questo tentò Dante nel Con-