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forma, e non cercavano e non si appassionavano pel contenuto, come avveniva con la Commedia.
Quel mondo, divenuto letterario e artistico, anche un po’ rettorico e convenzionale, non rispondeva più alle condizioni reali della vita italiana. Quel misticismo, quell’estasi dello spirito, che si rivela un’ultima volta con tanta malinconia e tenerezza nel Petrarca, era in aperta rottura con le tendenze e le abitudini di una società colta, erudita, artistica, dedita a’ godimenti e alle cure materiali, ancora nell’intelletto cristiana non scettica, e non materialista, ma nella vita già indifferente e incuriosa degli alti problemi dell’umanità. Il linguaggio era lo stesso, ma dietro alla parola non ci era più la cosa. Questo era il segreto di tutti, quel qualche cosa non avvertito e non definito, ma che pure si manifestava con tanta chiarezza nella vita pratica. E colui che dovea svelare il segreto e dargli una voce letteraria, non usciva già dalle scuole, usciva dal seno stesso di una società che dovea così bene rappresentare.
Tutti i grandi scrittori erano usciti dall’Università di Bologna, Guinicelli, Cino, Cavalcanti, Dante, Petrarca.
Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni dopo il Petrarca, e otto prima della morte di Dante, non pienamente avendo imparato grammatica, come scrive Filippo Villani, volendo e costringendolo il padre per cagione di guadagno, fu costretto ad attendere all’abbaco, e per la medesima cagione a peregrinare.
Il padre era un mercante fiorentino, e alla mercatura indirizzò il figlio. Quando i giovani appena cominciavano i loro studii nella Università, il nostro Giovanni faceva, come si direbbe oggi, il commesso viaggiatore, in servizio del padre, e il suo libro era la pratica e la conoscenza del mondo. Girando di città in città, si mostrava più dedito alle piacevoli letture e a’ passatempi che all’esercizio della mercatura, e più uomo di spirito e di