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giovane monaco, l’Introduzione alle virtù, la Commedia dell’anima sono in forma letteraria la teoria di questo mistero, che nelle lettere di Caterina raggiunge la sua perfezione dottrinale, ed acquista la sua individuazione o realtà storica ne’ Fioretti, nelle leggende, e nelle visioni del Cavalca e del Passavanti.
Ma questa letteratura era senza eco nella classe colta da cui esce l’impulso della vita intellettuale. Dante spregiava il latino della Bibbia, come privo di dolcezza e di armonia. Quello scrivere così alla buona e come si parla era tenuto barbarie o rozzezza. Vagheggiavano una forma di dire illustre e nobile, prossima alla maestà del latino, della quale Dante diè nel Convito un saggio poco felice. Nè potea piacere quella semplicità di ragionamento con tanta scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano dalle scuole con tanta filosofia in capo, con tanta erudizione sacra e profana. Ma se avevano in poco conto quella letteratura, giudicata povera e rozza, non era diverso il concetto che essi avevano della vita. I teologi filosofavano e i filosofi teologizzavano. La rivelazione rimaneva integra nelle sue basi essenziali, ammesse come assiomi indiscutibili. Tali erano l’unità e personalità di Dio, l’immortalità dello spirito, e lo scopo della vita oltre terreno.
Ma se il concetto era lo stesso, la materia era più ampia, abbracciando la coltura, oltre la Bibbia e i Santi Padri, quanto del mondo antico era noto, e la forma era più libera, paganizzando sotto lo scudo dell’allegoria, e voltando il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e Platone.
Il regno di Dio chiamavano regno della filosofia. E realizzare il regno di Dio era conformare il mondo ai dettati della filosofia, unificare intelletto è atto. Il mediatore era l’Amore, principio delle cose divine e umane, e non l’amore sensuale, ch’era peccato, ma un amore