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libro quinto 363

vassero a lor piacere le Repubbliche. Rimanevano però le memorie dell’Impero. Stessero i Consoli; ma ricevessero la investitura del Consolato dalle mani d’imperiale Legato senza pagamento di sorte; potesse l’Imperadore tenere nella città un giudice accoglitore di appelli nelle cause civili, che andavano oltre alle venticinque lire imperiali; infrenasse il giudice un giuramento di rispettare le costumanze della città, e di non tenere in ponte i litiganti oltre i due mesi; all’apparire del vegnente Imperadore in Lombardia, i federati gli prestassero il fodro reale, gli acconciassero i ponti e le strade, gli facessero trovare grassi mercati; giurassero mantenere i diritti dell’Impero nelle città, che non erano entrate nella Lega. Giurò l’Imperadore, giurarono le Repubbliche; e la pace fu fatta1.

Così dopo trent’anni di generosa guerra i Lombardi, soli tenendo fronte ad uno potentissimo Imperadore, conquistarono il tesoro della loro libertà, e sull’altare della patria si assisero maestri a tutta Italia del come si redimano i popoli e si aggioghino le tirannidi. Fortunati Lombardi, e più fortunata Italia, se avessero conservata l’anima come quella del dantesco Sordello altera e disdegnosa,

Sì davvero avrebbero dovuto posare come leoni su quel tesoro. Ma irrequieti nella conseguita pace, la esuberante vita profusero a danno della innocente patria. Sfecero colle mani proprie il santuario della libertà, e come farnetici per affocata febbre, andarono levando su le sue rovine una moltitudine di troni ad uomini più degni di sequestro, che di umano governo. I Visconti, gli Scaligeri, gli Ezzelini e tutto quell’armento di tirannelli, di cui vedeva gremita l’Italia il magno Alighieri quasi due secoli appresso,2 tra

  1. Vedi Carlini Monumenta pacis Constantiae.
  2. Purgat.