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220 CAPO X.

Strabone, che i Tarantini, temendo i Sanniti vicini, volean persuader loro con proficua adulazione ch’erano entrambi d’una medesima stirpe laconia, non fa più maraviglia, che gli Eubei della Campania1, od altri Greci italici, s’ingegnassero a un modo di ammansare con queste lusingherie l’animo dei Romani, che di conquista in conquista andavano più ogni ora avvicinandosi sotto l’armi alle loro imbelli colonie. I prossimi Siciliani, come Callia e Timeo, non favoleggiavano nulla meno di Roma: ma la piena d’ogni maniera di finzioni e di fole derivò dalla larga vena de’ mitografi alessandrini o di quella scuola. Già per avanti abbiam manifestato il nostro concetto, che sì fatte storie di greci e troiani siensi fatte propriamente nazionali nel Lazio non prima che le aquile romane s’inoltrassero nella bassa Italia, donde venne a Roma colla greca letteratura più divolgato il grido di cotali leggende elleniche2. Non erano i Romani un popolo originario al pari degli altri italici nè potevano quindi darsi vanto di grande anzianità, come ne facean pompa e Tivoli3 e Preneste ed altre città latine. Sì che il grosso intelletto dei Romani, mescolanza di genti d’ogni

  1. Quel Dionisio di Calcide citato da Dionisio (i. 82) ed Euforione di Calcide, ugual favolatore delle cose romane avevano per avventura usato essi stessi coi loro connazionali di Cuma, o d’altra colonia euboica di quel lido.
  2. V. pag. 39.
  3. Tiburtes quoque originem multo ante urbem Romam haberant. Plin. xvi. 44