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per la scelta degli emblemi e dei paralleli, per la descrizione dei segni astronomici, e la pittura delle deità proposte; dall’altro, per la ricchezza prodigiosa dei sinonimi e pel sentimento delle gradazioni più delicate. Bisogna convenire che la nostra sodisfazione sarebbe più viva, se questa medesima abbondanza non fosse un difetto, e se queste frequenti digressioni non spiacessero oggi tanto quanto piacevano al tempo di Bruno. Del resto gli servivano ora a spargere, a rendere popolari i suoi principj di filosofia; ora a combattere, scherzando o seriamente, il triplo ordine de' suoi avversari, gl'ipocriti, gli scioli ed i pedanti.
Quest’opera, più che qualunque altra, dimostra come Bruno fosse un lettore assiduo di Dante; o a dir meglio, dimostra quanto tutta la letteratura italiana riconosca da questo genio creatore, da questo dotto universale. Il mescolamento del sacro e del profano in poesia, l’unione della mitologia antica con la fisica e la metafisica, con la dialettica e la morale, come altresì con la religione cristiana, la confusione del passato e del presente, delle cose dell'Orco con quelle dell’Inferno, una tendenza permanente all'allusione come all'allegoria, son cose che in generale tengono del dantesco. Ma tra la Divina Commedia e lo Spaccio corrono analogie più speciali. Nell’uno e nell’altro libro i vizj son rappresentati in figure di bestie. Sono la pantera, il leone, la lupa che impediscono al poeta di Firenze il