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di francesco redi. 17

rienze con quelle frecce indiane, non l’ho trovate in Toscana di natura tanto perfida, e tanto violenta, come vien detto. I cani, che con esse ho feriti, altri sono spirati in sei ore, altri in sette, altri in dodici, ed altri in ventiquattro; e le loro carni non si son putrefatte, ne son cascate a pezzi; ne il lor sangue, ne il lor vapore ha cagionata mai la morte ad altri animali impiagati: Anzi ho osservato soventemente, che, a voler che quelle frecce ammazzino, non basta, che facciano un semplice taglio nella carne; ma fa di mestiere, che rimangano per qualche tempo fitte, e nascoste nella ferita (il che avviene ancora alla polvere del liquor giallo delle Vipere) e perciò quei Barbari fabbricano di legno le punte delle loro frecce, le impiastrano di veleno, e poscia le congegnano sull’asta in modo tale, che avendo ferito, rimangano esse punte nella piaga, ogni qual volta, o si rompa l’asta, o se ne voglia trar fuori dalla mano di chi che sia, come addivenne sotto Gerusalemme a Goffredo, ed a Ruberto Sign. di Fiandra, di cui il grandissimo Epico Toscano.


Sospingeva il monton, quando è percosso
Al Sig. de’ Fiamminghi il lato manco,
Si che travia s’allenta, e vuol poi trarne
Lo strale, e resta il ferro entro la carne.


È necessario dunque, che rimangano quelle frecce per qualche tempo dentro alla carne, a voler ch’elle ammazzino; onde non so come il volgo vada sognandosi di poter avvelenar le lame delle spade. So bene


che