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Sonetti del 1833 227

ER BON ESEMPIO.

     Cuanno se disce poi nun ce se crede!
Come vòi crede1 a sti parabbolani
De preti, che li cani che sso’2 ccani
Viengheno3 più ssinceri, hanno ppiù ffede?

     Senti er curato mio che mme succede.4
Com’oggi m’approvò5 cche li cristiani
È ppeccato de fó..e;6 e llui domani
Ballava su la panza de Pressede.

     Ma ggià dar capo viè ttutta la tiggna.7
Ché ssi8 un po’ ne mannassino9 a l’incastro,10
Je se potrìa intorzà11 cquarche ffufiggna.12

     “Come va,„ jje diss’io, “padre13 Filisce?„
E llui rispose: “Lei facci,14 sor mastro,
No cquer ch’er prete fa, ma cquer che ddisce.„15

Roma, 10 maggio 1833.

  1. Credere.
  2. Sono.
  3. Vengono.
  4. Cioè: Senti cosa mi succede col curato mio.
  5. Provò.
  6. Cioè: che è peccato per i cristiani ecc.
  7. Proverbio. [La cui vera forma è questa: Dar capo viè la tigna.]
  8. Se.
  9. Mandassero.
  10. Ergastolo. [Perchè ergastolo più specialmente si chiamava la prigione degli ecclesiastici, che era per tutti a Corneto, là dove ora è il Museo Municipale Tarquiniense. Ma incastro significa anche “la condizione di chi si trova tra l’uscio e il muro.„ È anzi certo che, per questo suo significato e per la somiglianza di suono, fu poi dal popolo confuso con ergasolo.]
  11. Dicesi anche rimporre, cioè “rimanere in gola, [andare attraverso.„]
  12. Contrabando.
  13. [V. in questo volume la nota 1 del sonetto: Li mariti (2), 6 nov. 32.]
  14. Faccia.
  15. [Bisoggna fà quer che er prete disce, no cquer che er prete fa. Proverbio.]