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Sonetti del 1832 | 135 |
un battibecco colla Corte di Roma, la quale favoriva in tutti i modi i Michelisti. Ma sconfitti costoro in campale battaglia il 16 maggio 1834, dieci giorni dopo don Michele capitolava a questi patti: che gli si lasciassero i beni privati, e gli venisse pagata un’annua pensione di 375 mila lire; egli dal canto suo si obbligava a partir subito e a non più tornare nella Penisola iberica. Arrivato a Genova, si pentì, e protestò per salvare i suoi pretesi diritti. Così perdeva pensione e beni privati. Ma Gregorio XVI gli apriva a Roma le paterne braccia, accogliendolo con que’ riguardi dovuti a un caporale della reazione europea, e assegnandogli la bagattella di 1800 scudi al mese, da levarsi dal pubblico erario, il quale dopo i casi del 1831 era venuto in tali angustie, che si dovette contrarre un prestito con Rotschild al 65 per cento (V. il sonetto: La sala de Monzignor Tesoriere, 8 genn. 32). In tal modo, i sudditi del Papa facevano la penitenza non solo de’ propri, ma anche dei peccati de’ liberali portoghesi.]
2 [Rieccoti.]
3 [Comodamente: come chi sta sopra sedia soffice]
4 [Vedi la nota 1, verso la fine.]
5 [Questo consiglio dato a don Michele, che in parecchie occasioni lo aveva già posto ad effetto, colpiva di rimbalzo la Corte romana, la quale aveva di fresco violata la capitolazione d’Ancona, e permesso che il prode generale Zucchi ed altri patriotti modenesi e romagnoli (che giusta i patti conchiusi col cardinal Benvenuti, dovevano essere amnistiati), venissero presi, mentre emigravano, dagli Austriaci, e poi condotti a Venezia, e là tenuti prigioni, e lo Zucchi condannato a morte da un tribunale militare: compiendosi in tal modo i voti di Gregorio XVI, il quale disconobbe l’atto solenne del suo cardinal legato, e volle svellere fin dalle radici la zizzania, affinchè non fosse soffocato il grano eletto. V. il Manifesto indirizzato da papa Gregorio a’ suoi dilettissimi sudditi, il 5 aprile 1831. — Ecco il sonetto, come fu scritto dal Giraud. Vi aggiungo solo la punteggiatura, che difetta quasi interamente, e qualche accento qua e là:
Adesso ce mancava st’accidente:
Dopo fatto ar Brasile er pappagallo,
Arriècchete don Pedro da reggente
A rompe li c.... ar portogallo [sic].
A noi per èsse non c’importa gnente,
Ché stamo, grazie a dio, cór culo callo:
L’Ebreo ce dà danari allegramente,
E ce se magna sopra buggiarallo!
Ma me sento schiattà per don Michele.
Glelo [sic] volevo dì: “Sei troppo bono:
Quanno vedevi er popolo infedele,
Senza chiamà né diavoli né santi,
Stampagle [sic] un bell’editto di perdono
Er giorno appresso impicca tutti quanti.„]