Pagina:Sonetti romaneschi I.djvu/241


Prefazione ccxxix


za di Dio, ma crede al diavolo, alle streghe, agli spiriti, più sicuro che se li avesse toccati con mano. Porta nella stessa tasca coltello e corona.„

Da questo curioso impasto, e dalla natura stessa del reggimento che aveva contribuito a produrlo, derivava in gran parte l’inclinazione e l’attitudine de’ Romaneschi a burlarsi d’ogni cosa. E poiché la lingua (io dicevo ancora) “è sempre lo specchio dell’anima d’un popolo, nel vernacolo romanesco si riflette limpidamente il bernoccolo satirico dei figli di Quirino, e frasi, traslati, proverbi, similitudini sono spesso epigrammi: tutto il dialetto, starei per dire, è una satira ... Se oggi [1868] andate da un vetturino per contrattare una gita in campagna, e gli offrite un compenso che a lui paia non adeguato, vi risponde seriamente: Nun pòzzumus!, traslato e satira a un tempo.„

Ora, tra le carte del Belli, trovo una sua lettera del 15 gennaio 1861, nella quale egli si scusa di non poter fare per Luigi Luciano Bonaparte la traduzione romanesca del Vangelo di San Matteo, perchè questa “lingua abbietta e buffona,„ parlata dalle sole infime classi, “appena riuscirebbe ad altro che ad una irriverenza verso i sacri volumi.„ Vale a dire, che per tradurre nel vero romanesco una cosa seria, bisogna necessariamente metterla più o meno in ridicolo. Che se poi lui, il Belli, s’era “in altri tempi,, lasciato andare a scrivere in dialetto, lo aveva fatto "unicamente,, per "introdurre il nostro popolo a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi propri usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo, di cui esso occupa il fondo.„ Il qual proposito era già stato più minutamente esposto da lui fin dal 5 ottobre 1831 all’amico suo Francesco Spada, in una lettera da