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30 | scritti di renato serra |
del suo animo, degna di essere considerata con attenzione e con discrezione.
Prima di tutto, il suo positivismo ha ben poco di comune con quella pseudofilosofia che ha signoreggiato fino a ieri tante scuole d’Italia: esso è sentimentale, se così posso dire, e non razionale: ignora gli universali e il problema della conoscenza. Il suo interesse è riposto tutto nell’uomo e nella vita.
Egli contempla le cose con l’occhio di Mimnermo, o del Leopardi. In tutto l’universo solo una si trova che importi: l’uomo oggi è vivo, ma domani sarà vecchio, sarà morto. Come si può vivere ed esser felici sapendo questo?
La religione scioglieva il problema eterno, togliendo via uno dei termini: sopprimeva la morte. Ma il Pascoli sa e sente che la morte non si può togliere via; e tutto è vano, tutto è fumo e nebula fuggitiva e illusione di bimbi, fuor che questo solo; io che vivo e mi muovo, io pur debbo morire. Questo è il suo positivismo: e non ha poca parte nella sua poesia, in quel soffio d’ansia e d’angoscia quasi religiosa, in quella morale di uguaglianza fra gli uomini e di amore che ne avvicina le teste fraterne, quasi di bimbi che s’addormono insieme, aspettando la morte che chini non vista su loro la sua lampada accesa.
Ma alla veduta chiara della morte s’accompagna invincibile l’illusione; religione o speranza. Il Pascoli, nella sua ingenuità raffinata, se ne rende conto mirabilmente: vede la illusione quanto è dolce, e sente in quella dolcezza la prova della vanità: ama, come uomo, la sua illusione, senza lasciarsene ingannare; e in quella tristezza del disperato amore trova una voluttà, di cui si inebria il suo animo.